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Banche Marche si poteva salvare, anche ora a rischiare sono le più piccole

Banca Marche si sarebbe potuta salvare se due anni fa avesse varato un aumento da 450 milioni di euro o avesse ricevuto i “Monti bond”. Ora a rischio sono gli istituti di minori dimensioni, che per molti analisti potrebbero presentare patrimoni netti negativi…
A cura di Luca Spoldi
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Banca delle Marche, una delle quattro banche “risolte” assieme Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di risparmio di Ferrara e Cassa di risparmio della provincia di Chieti di cui son stati salvati gli obbligazionisti “senior” e i depositanti anche sopra la soglia dei 100 mila euro, ma non gli azionisti (ovviamente) e gli obbligazionisti subordinati, si sarebbe potuta salvare ancora due anni fa con un intervento “da 450 milioni di euro, in gran parte con equity”.

A dichiararlo è stato il banchiere ed ex ministro Rainer Masera, che venne chiamato alla guida dell’istituto jesino nell’estate del 2013 salvo dare le dimissioni tre mesi dopo, dimissioni cui seguì la decisione di Banca d’Italia di commissariare l’istituto, ponendolo in amministrazione straordinaria. Masera, interpellato di giornalisti sulla vicenda delle banche “risolte”, ha anche ricordato che la necessità di trovare al più presto 450 milioni di euro era emersa in base ad “una valutazione rigorosa dei crediti della banca”, crediti che a seguito della procedura di risoluzione, due anni e mezzo dopo tale valutazione, sono stati pesantemente svalutati e girati alla “bad bank” che ora provvederà a venderli sul mercato per cercare di recuperare qualcosa.

A Banca Marche, ha anche aggiunto Masera, in quella fase sarebbe risultato utile un sostegno come i “Monti bond” concessi a Mps, ma “mi dissero di no”. Perché nessuno intervenne a sostegno di Banca Marche, Banca Etruria, Carife o CariChieti e perché non furono concesse emissioni di “Monti bond”, che pure vennero interamente rimborsati (i primi 3 miliardi nel 2014, l’ultimo miliardo lo scorso giugno) con un pagamento in parte rappresentato da nuove azioni per un totale del 4% del capitale (che ad oggi valgono circa 146 milioni di euro)?

Forse perché non c’erano risorse per tutti? O perché molti banchieri italiani, soprattutto negli istituti popolari e minori, indossano due se non tre cappelli, intercambiabili per l’occasione: quello di consigliere d’amministrazione, quello di azionista e quello di cliente (a volte abbinandoli ad una casacca politica)? La qual cosa genera qualche ostacolo sia alla buona gestione degli istituti (e più in generale non agevola la corretta erogazione del credito, cosa che è lecito sospettare non aiuti l’economia reale) sia alla tutela del pubblico risparmio.

Ma perché nessuno dei millantati “cavalieri bianchi è sceso in campo in due anni e mezzo, prima che fosse necessario mettere in liquidazione coatta amministrativa i “vecchi” istituti, cederne gli asset tossici e provare a rimettere sul mercato le quattro “bridge banks”, che paiono già avere ricevuto le prime manifestazioni d’interesse? Si sarebbe potuto far fare al mercato, lasciando fallire le banche, o procedere a farle assorbire da istituti più robusti.

La prima ipotesi non è mai stata accettabile politicamente e del resto è più facile diluire sull’intero corpo dei contribuenti italiani il costo di un fallimento, che non addossarlo a investitori che si presume debbano essere maggiorenni e consapevoli, ma si scoprono puntualmente non esserlo poi tanto, oltre che agli “innocenti” dipendenti; la seconda ha trovato evidentemente altrettanto ostacoli politici, visto che storicamente Banca d’Italia è sempre stata pro-aggregazioni quando fiutava odore di guai.

Qualcuno osserva però che il problema va molto al di là di conflitti d’interesse “spiccioli” di banchieri e politici di turno. Guardiamo i dati: sul sistema bancario italiano gravano a fine settembre sofferenze lorde per 200,4 miliardi di euro, 23,5 miliardi più di un anno prima, 2 miliardi più che a fine agosto, arrivando a rappresentare il 10,5% del totale dei prestiti, il massimo degli ultimi 20 anni (ma per le imprese la percentuale oscillava tra il 17,4% e il 17,9%, in base alla dimensione dell’azienda debitrice).

Il dato che deve fare maggiormente riflettere è però quello delle sofferenze nette, per le quali, cioè, non sono stati fatti ancora accantonamenti di sorta. Sempre a fine settembre si era arrivati a 87,1 miliardi (dagli 85,9 miliardi di fine agosto), pari al 4,84% degli impieghi totali (era pari al 4,49% a settembre 2014, a 0,86% a fine 2007, prima della crisi finanziaria mondiale). I crediti in sofferenza hanno un mercato, naturalmente, quindi perché non li si è ceduti per tempo?

Perché sul mercato ogni volta che un pacchetto più o meno consistente di crediti problematici è stato posto in vendita, fondi hedge e operatori specializzati se lo sono aggiudicato, presentando offerte in concorrenza tra loro, tra il 10% (o anche meno in alcuni casi, specie l’anno scorso) e il 15% del valore nominale, ossia leggermente meno di quanto la “bad bank” creata per le banche “risolte” ha acquistato i crediti problematici (il cui valore complessivo era stato abbattuto, come ricorderete, da 8,5 a 1,5 miliardi di euro), certamente non quanto i banchieri coinvolti speravano di ottenere.

Tra desideri di difesa del controllo da parte delle Fondazioni azioniste che troppo spesso hanno investito il proprio patrimonio quasi esclusivamente nelle azioni della “propria” banca, subendo pesanti perdite come nel caso di Mps, e tentativi di far quadrare i conti, la tentazione di far pagare il conto ai clienti-risparmiatori è stata forte, con aumenti striscianti dei costi non giustificati da maggiori o migliori servizi e distribuzione di prodotti a rischio anche a chi non aveva un profilo adatto a sopportare quel rischio, nonostante ripetuti ma inascoltati richiami di Banca d’Italia, che da parte sua avrebbe potuto mostrare maggiore decisione in qualche caso.

L’alternativa? Sarebbe stata quella di procedere o a misure straordinarie che avessero chiamato il sistema bancario a intervenire (come poi è avvenuto di fatto), ma si sarebbe dovuto partire per tempo con l’accantonamento di fondi a tale scopo, cosa che non è stata possibile fare visto che dalla crisi del 2008 le nostre banche, nonostante le dichiarazioni roboanti dei ministri pro tempore in carica, sono uscite più deboli e non più forti di quelle degli altri paesi.

O, appunto, lasciar fare al mercato. Ipotesi che tuttora comporterebbe il probabile fallimento di molti istituti di piccola dimensione, il cui patrimonio netto risulterebbe a detta di molti analisti negativo se si andasse ad effettuare delle due diligence come quelle svolte per le quattro banche “risolte”. Tutte le altre misure non sono state e non saranno altro che un tirar calci al barattolo e sperare di guadagnare ancora tempo, ma non serviranno a evitare che ulteriori piccoli istituti possano fare la stessa fine, con la certezza che a pagare il conto dal primo gennaio prossimo saranno nell’ordine azionisti, obbligazionisti e in caso estremo anche depositanti sopra i 100 mila euro di controvalore sui conti.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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