Non chiamatelo complotto, per cortesia. Al secondo giorno della pioggia di vendite scattata sui titoli bancari italiani dopo che si è sparsa la notizia di una richiesta che la Bce, nell’ambito delle procedure di vigilanza continuativa previste dal Single Supervisory Mechanism, valuterà gli aspetti relativi a strategia, governance, processi e metodologie di gestione dei “non performing loans” (npl, crediti deteriorati) di sei banche italiane, la tentazione di gridare al “gombloddo” è forte, specie dopo che ancora vi è chi riduce la caduta del governo Berlusconi, nel 2011, ad una macchinazione a livello europeo contro l’Italia.
Sentirsi un giorno spavaldi, il giorno dopo Calimero, accusando gli altri di non capire le nostre “specificità” fa evidentemente parte dell’indole italiana, ma quando si tratta di banche forse sarebbe meglio far parlare i numeri e i numeri, in questo caso, non sono buoni checché ne dicano i politici italiani e i vertici dei nostri istituti, a stare a sentire i quali le crisi di questi ultimi anni non avrebbero dovuto quasi neppure sfiorare le banche tricolori, stante appunto la loro specificità. Così non è evidentemente stato, visto che l’Italia si muove da decenni in uno scenario globale sia a livello economico sia politico.
Delle sei banche quotate sotto esame della Bce (Unicredit, Mps, Banca Carige, Bper, Banco Popolare e Bpm) le conseguenze borsistiche peggiori sono finora toccate all’istituto senese, oggi ripetutamente sospeso al ribasso e a metà giornata indicato a 67,4 centesimi per azione dopo un minimo a 67,1 centesimi. Mps negli ultimi 12 mesi ha “bruciato” interamente un aumento di capitale da 3 miliardi e visto la sua capitalizzazione scivolare a poco più di 2,2 miliardi, perdendo circa i due terzi del proprio valore.
Segno che il malessere è antecedente a quest’ultima richiesta da parte delle autorità di controllo europee, che già lo scorso anno oltre agli stress test dell’Asset quality review (Aqr) avevano richiesto un supplemento d’indagine sui portafogli Residential Real Estate (29,8 miliardi di euro), Institutional (1,7 miliardi), Project Finance (1,8 miliardi) e Shipping (1,3 miliardi). A fine settembre scorso l’esposizione netta in termini di crediti deteriorati risultava per Mps pari a 24,4 miliardi di euro, in crescita del 5,4% rispetto a fine 2014.
Nel solo terzo trimestre erano aumentate del 4,7% le sofferenze, dello 0,8% le inadempienze probabili e del 6,1% le esposizioni scadute e sconfinanti deteriorate; Mps aveva poi ceduto un portafoglio di crediti in sofferenza del valore di circa un miliardo di euro nel mese di dicembre. Se Mps piange, Unicredit non ride, col titolo in calo di quasi il 3% a 4,04 euro, sempre a metà giornata a Milano. L’istituto in una nota ha ricordato come le sofferenze nette fossero a fine settembre pari a 19,5 miliardi, in calo rispetto a dicembre 2014 (quando erano risultate pari a 19,7 miliardi).
Altro titolo in evidente affanno è Banco Popolare, a lungo sospeso prima di tornare a trattare sui 9,71 euro (dopo un minimo mattutino a 9,355 euro), in calo del 6,7%. Nel caso di Banco Popolare, che a fine settembre presentava 14,24 miliardi di crediti deteriorati netti, la richiesta di Bce, definita da un portavoce una pratica di supervisione “standard”, interviene proprio mentre sembra prossima un’offerta per arrivare a un matrimonio con Bpm, offerta che secondo le indiscrezioni raccolte dai giornalisti italiani sarebbe favorita rispetto a quella avanzata da Ubi Banca.
A pensare male si fa peccato, ma Bpm, che oggi risale di un punto percentuale in borsa, ha una capitalizzazione di mercato di circa 3,6 miliardi contro i poco più di 3,7 miliardi di Banco Popolare e gli oltre 4,4 miliardi di Ubi Banca. Non sarà che ai vertici di Bpm, notoriamente espressione dei soci-dipendenti più che del mercato, l’offerta di Banco Popolare possa piacere per una prevedibile spartizione “alla pari” delle poltrone nel board dell’istituto che nascerebbe dalla fusione?
Cosa che piacerebbe ai sindacati interni di Bpm che avrebbero un potere contrattuale residuo ben più forte di quello che potrebbero avere nel caso di un matrimonio con Ubi Banca (la quale forse anche perché conscia di questo tiene aperte le trattative anche con Bper), ma probabilmente piacerebbe molto meno alla Bce.
A fine settembre Bpm risultava avere 3,71 miliardi di crediti deteriorati netti e Bper (in calo del 5% circa a metà giornata a Piazza Affari, a 5,37 euro per azione, con una capitalizzazione di circa 2,7 miliardi) per 6,59 miliardi, mentre Ubi Banca ne segnalava per 9,87 miliardi, come dire che l’istituto emiliano parrebbe essere un “piano B” per Ubi Banca ove ragioni politiche o economiche impedissero l’integrazione con Bpm. E Banca Carige? Per molti poteva essere l’alternativa, per Bpm, ad una integrazione (a due o a tre) con Banco Popolare e Ubi Banca, ma possedeva 3,9 miliardi circa di crediti deteriorati netti, ossia anche più di quelli del potenziale acquirente.
Le banche nelle loro trimestrali hanno sottolineato come il grado di copertura delle sofferenze lorde fosse più che rassicurante e come il rapporto tra sofferenze nette e totale dei crediti rientrasse ampiamente nei criteri fissati dalla stessa Bce. Ma il fatto che Mario Draghi abbia deciso di rimandare gli ispettori a controllare la qualità di quegli stessi numeri rende nervosi gli investitori, che evidentemente non escludono sorprese negative a differenza dei banchieri e dei politici italiani.
Vedremo nei prossimi mesi chi avrà ragione e se la pressione di Draghi servirà a “smuovere” i più riottosi tra i banchieri che si oppongono alla trasformazione delle banche popolari in società per azione e al nuovo giro di fusioni e acquisizioni, o il premier Matteo Renzi. Dopo le ultime diatribe con i vertici delle istituzioni europee il premier italiano sembra non essere ritenuto più un interlocutore pienamente affidabile, cosa che potrebbe indebolirne la posizione.
Da qui a parlare di complotto ce ne vuole, soprattutto perché come detto i problemi delle banche italiane (e del sistema paese in senso più ampio) sono noti da tempo e continuano nonostante tutto a non trovare soluzioni adeguate. Colpa di un sistema, quello italiano, cui piace molto auto compiacersi nei momenti migliori e fare la vittima nei momenti difficili, nel tentativo di preservare il più a lungo possibile le diffuse rendite di posizione che contraddistinguono l’economia e la società italiana.
Più che un complotto sembrerebbe dunque l’emergere delle conseguenze di un ritardo nella ristrutturazione del settore del credito italiano, finora scaricato quasi interamente sulle spalle dei suoi dipendenti e poco o nulla dei suoi vertici e del mondo politico che ad esso è legato. Sarà la volta buona perchè qualcosa cambi, in meglio?