Banche, sempre loro: mentre la Bce fa sapere che renderà noto a fine novembre i risultati dell’indagine “approfondita” a cui sono stati sottoposti nove enti creditizi (tra cui Unicredit Banka Slovenija) per quanto riguarda la qualità degli attivi (Asset quality review, Aqr) e la capacità di superare stress (stress test), in Italia il ministro dell’Economia e finanze, Pier Carlo Padoan, parlando a margine della riunione annuale del Fondo monetario internazionale, che qualche giorno fa aveva notato come l’ammontare dei crediti problematici fosse ancora un problema di non poco conto (l’Fmi stima che pesino per 900 miliardi di euro sui bilanci delle banche di tutto il mondo, circa 200 miliardi dei quali sarebbero nelle casse delle sole banche italiane), sembra volervi controbattere affermando che una “bad bank” non sarebbe “di difficile implementazione”, come invece aveva lasciato intendere il direttore del dipartimento dei mercati monetario e dei capitali dell’Fmi, Jose Vinals.
Non solo: Padoan ha anche affermato che l’intervento dello stato “eventualmente nella forma di garanzia pubblica” è un qualcosa “che non necessariamente serve ma sta lì se serve”, basta, in sostanza, che l’intervento pubblico resti ridotto al minimo essenziale “proprio per i nuovi vincoli legislativi che non ci permettono di entrare in modo pesante come altri paesi hanno fatto”. La Germania ha iniettato nel proprio sistema bancario oltre 200 miliardi di euro, ha ricordato il ministro, mentre l’Italia “è nell’Eurozona quella che ha messo meno soldi pubblici nel sistema bancario pur avendo un sistema bancario che richiede naturalmente un aggiustamento, che per altro è in corso”.
Neppure il problema della valutazione di un prezzo congruo per questi asset secondo il ministro sarebbe insormontabile, dato che esisterebbero “vari modelli che permettono una gestione dei crediti in sofferenza in senso lato”. Risolti gli ultimi dettagli tecnici “come la fissazione del prezzo in un mercato che è ancora virtuale” e che potrebbe aver bisogno di “una spintarella con meccanismi che devono “minare”, come si dice in gergo tecnico, il mercato” sui quali si sta ancora ragionando, si potrebbe arrivare ad “implementare a livello europeo” questo ulteriore meccanismo che si affiancherebbe alle piattaforme private lanciate negli ultimi mesi e a quelle che stanno per aggiungersi (Prelios, l’ex Pirelli Re, ha da poco avuto l’assenso di Banca d’Italia per procedere attraverso Prelios Credit Servicing ad una prima cartolarizzazione di portafogli di crediti deteriorati multi seller, che potrebbe coinvolgere inizialmente otto istituti italiani).
La notizia è certamente benvenuta, perché riuscire a mettere in sicurezza una “bomba” di queste dimensioni è essenziale per qualsivoglia prospettiva di ripresa sia del credito sia più in generale dell’economia italiana. Altre le operazioni potrebbero e forse dovrebbero coinvolgere le banche italiane ed europee, a partire da una maggiore trasparenza nei confronti del fisco. Sarà un caso, ma gli Stati Uniti da quando nel 2009 hanno iniziato ad “aggredire” il segreto bancario svizzero sono riusciti a fare quello che fino a pochi anni fa sembrava impensabile, con 41 istituti di grandi (Ubs e Credit Suisse in testa) e piccole dimensioni che hanno approfittato della “amnistia fiscale” concordata tra Stati Uniti e Svizzera per far emergere il nero che si era andato accumulando negli anni nei propri bilanci, in parte anche di origine italiana.
Tutto è iniziato sei anni fa quando Ubs accettò di pagare una multa di 780 milioni di dollari per evitare di essere incriminata per frode fiscale negli Stati Uniti. Dopo quella prima mossa il fisco americano mise nel mirino altri 14 istituti, tra cui appunto il Credit Suisse, aprendo indagini penali nei loro confronti per poi offrire, nel 2013, il proprio “perdono” a chi avesse “cantato” i nomi dei contribuenti americani infedeli. Risultato: le 41 banche hanno pagato in tutto altri 354,4 milioni di dollari di penali, di cui 211 milioni la sola Bsi – Banca svizzera italiana, controllata fino allo scorso anno dal gruppo Generali che la cedette poi al gruppo Btg Pactual (lo stesso che con Fintech Advidsory e Fondazione Mps costituisce il “nocciolino duro” che controlla tuttora Mps). In quasi tutti i casi, come per Ubs, in cambio della rinuncia delle autorità Usa a proseguire le indagini.
Non solo: gli istituti elvetici, tra cui Banca Intermobiliare di Investimenti e Gestioni Suisse, unica a non aver dovuto pagare alcuna penale, e Banca Credinvest, che nel 2011 aveva assorbito Fideuram Bank Suisse, hanno dovuto fare nomi e cognomi (e conti) dei clienti americani e spiegare come li avevano aiutati ad evitare di pagare tasse negli Stati Uniti, attraverso una rete di conti a Hong Kong, in Israele, in Libano, in Licthestein e a Cipro. Visto che l’accordo di “amnistia fiscale” scadrà a fine anno e che si stima che un’altra quarantina di banche riusciranno a raggiungere un accordo col fisco entro tale data (su 106 istituti che hanno chiesto di poter accedere al procedimento), c’è da aspettarsi che l’ammontare delle penali pagate, così come il numero di miliardi di dollari che emergeranno alla fine, sarà ancora più alto delle cifre attuali, mentre gli investigatori del fisco Usa avranno a quel punto mano libera per proseguire le indagini anche in altri paesi.
Potrebbe essere un modello da seguire anche in Italia, dove la procedura di “voluntary disclosure” a cui hanno aderito circa 70 mila contribuenti è stata appena prorogata fino a fine anno e ha già fatto emergere un gettito di oltre 1,9 miliardi di euro a fine settembre, destinato a salire ancora? Tutto sommato visto che si stanno ipotizzando interventi pubblici a sostegno del sistema bancario e che ai contribuenti “pentiti” è stato già concesso tempo sufficiente per ravvedersi, potrebbe effettivamente valere la pena di studiare se e come mettere in atto una simile strategia anche da parte dell’Agenzia delle Entrate, cercando per una volta di concentrare le risorse sui grandi evasori prima che sugli errori veniali dei piccoli contribuenti.