Le banche italiane, quelle che secondo Banca d’Italia e Palazzo Chigi erano più solide di molte delle loro concorrenti europee, sono ormai trattate dal mercato alla stregua di Cenerentola. Complice un livello spropositato di crediti concessi male e finiti peggio, di una modesta redditività e di una fragilità patrimoniale strutturale, le principali tra le oltre 600 banche che popolano il “Bel Paese” in borsa continuano a prendere schiaffi in piena faccia ogni qual volta si profili un aumento di capitale, con gli istituti veneti che stanno facendo la figura di un qualunque Banco di Napoli, senza però poter sperare di scaricare su una bad bank le proprie sofferenze (letteralmente).
Così a brillare sono solo quei titoli che negano con decisione ogni tentazione di chiedere al mercato mezzi freschi: Ubi Banca e Bper ogni qual volta smentiscono un qualsiasi interesse per Veneto Banca (mentre voci di un possibile coinvolgimento nella ricapitalizzazione dell'istituto penalizzano subito i titoli delle due banche in borsa), Banca Carige ora che ha approvato il piano industriale 2016-2019, che al posto di una ricapitalizzazione prevede un forte impegno sui tre principali fronti aperti, ossia la cessione dei crediti deteriorati, il taglio dei costi e il dimagrimento della rete commerciale, che si ridurrebbe di 80 sportelli, calando dagli attuali 625 a 545 filiali.
Torna invece a soffrire Unicredit: dopo aver sacrificato, pardon investito, al pari di Intesa Sanpaolo, un miliardo nel fondo Atlante (ed aver così evitato di doversi accollare 1,5 miliardi di euro di titoli BpVi), la banca non ha potuto evitare di veder calare i propri coefficienti patrimoniali e subito sono scattate le voci su cosa sarebbe potuto succedere. La prima ipotesi, quella di un passo indietro dell’amministratore delegato, Federico Ghizzoni, si è già tradotta in realtà, mentre domani si aprirà ufficialmente la ricerca del suo successore. Un secondo, l’aumento di capitale da 5 miliardi nel secondo semestre dell’anno, viene ribadito in una nota da Equita Sim essere l’unica reale possibilità.
Le alternative, secondo gli analisti, sono del tutto inutili: dismettere quote del 20% di FinecoBank, Pekao e Yapi Kredi porterebbe fino a 7,6 miliardi di euro, ma ridurrebbe del 20% gli utili relativi per il gruppo compromettendo la capacità di generare utili a medio oltre che a breve termine. E la fusione con Mediobanca, le cui voci secondo alcuni sarebbero state messe in giro proprio per sondare gli umori del mercato in vista di una promozione/rimozione di Alberto Nagel dalla poltrona di numero uno di Piazzetta Cuccia a quella di Unicredit? Sempre secondo Equita Sim (il cui controllo, sarà un caso, è stato rilevato lo scorso anno da Alessandro Profumo, che certo conosce molto bene i protagonisti di questo scenario fin dai tempi in cui era amministratore delegato dello stesso Unicredit) “non sarebbe risolutiva”.
Da un lato, infatti, perché i coefficienti patrimoniali crescerebbero troppo poco per scongiurare del tutto un aumento (il Cet1 in particolare raggiungerebbe a malapena l’11,3%), dall’altro le criticità date dalla difficoltà a tagliare i costi, da una difficile integrazione di differenti culture aziendali, dall’impatto sul franchisee di Mediobanca e da una diluzione del marchio rischierebbero di compensare i presunti benefici legati alla nomina di Nagel nel ruolo di un Ceo con un mandato forte per decisioni “non convenzionali su asset, reputazione presso gli investitori, rafforzamento di Cib di Unicredit”. Ammesso e non concesso, ovviamente, che sul nome di Nagel possa esservi l’obbligatorio placet della Bce, così come sull’integrazione in Unicredit di una banca d’affari, per sua natura impegnata in attività a rischio.
Di fondo resta il problema evidenziato sin dall’inizio: con poco meno di 200 miliardi lordi di crediti deteriorati, di cui 90 miliardi circa rappresentati dalle sole sofferenze, era e resta velleitario sperare che un fondo di poco più di 4,2 miliardi come Atlante possa rappresentare altro che un primissimo passo lungo un sentiero che resta scosceso e non breve prima di riuscire a superare il momento di difficoltà del comparto creditizio italiano. E visto che il comparto creditizio (e quello popolare in particolare) è la principale se non unica fonte di finanziamento delle Pmi italiane, avendo invece i pochi grandi gruppi tricolori la possibilità di operare anche su mercati e con intermediari esteri, la soluzione della crisi bancaria italiana è condizione necessaria, per quanto non sufficiente, per sperare di veder ripartire la crescita economica italiana.