Rientrare in Italia da una breve vacanza all’estero mi provoca puntualmente l’orticaria: perché anno dopo anno trovo conferma di come il “Bel Paese” sia ormai un paese periferico, sia economicamente sia culturalmente, di come al di là di pochi capisaldi come l’enogastronomia (che però proprio perché giudicata di qualità è sempre meglio proposta anche all’estero) il confronto con paesi come Francia, Germania o Austria, ma persino Slovenia o Spagna, ci veda perdere lentamente terreno nella gestione degli spazi urbani, nei trasporti, nella sicurezza, nella valorizzazione del patrimonio storico-culturale-paesaggistico.
Mi fermo qui perché chiunque varchi i patri confini è in grado di fare i propri raffronti, notando come puntuali sulla stampa nazionale in agosto tornino tematiche care ai cantori della “specificità” italiana, del “complottismo” internazionale ai danni del più bel paese del mondo (per chi non è chiaro, o forse lo è fin troppo), del “vorremmo ma non possiamo”. E così eccoci di nuovo a parlare di banche che sono le più sane al mondo, se non fosse che hanno prestato malamente oltre 200 miliardi di euro negli ultimi anni, miliardi che si sono trasformati puntualmente in crediti marci che ora si vorrebbero vendere “almeno” a un terzo del proprio valore, peccato che proprio non si trovino acquirenti disposti a pagarli tanto.
Tra questi campioni del credito vi segnalo le quattro “good bank” nate dalla risoluzione, lo scorso dicembre, di Cariferrara, Carichieti, Banca Marche e Popolare dell’Etruria, quest’ultima assurta all’onore delle cronache per aver intrecciato il proprio destino a quello della famiglia Boschi (come se la contaminazione politico-economica fosse un’esclusiva di questo o quell’istituto e non una pratica istituzionale del settore creditizio italiano, da molti decenni). Per chi si fosse perso le puntate precedenti, questi fantastici istituti “sani”, ossia spogliati delle sofferenze fatte in precedenza, sono stati messi sul mercato ma oibò: alla scadenza del termine (20 luglio) per presentare offerte vincolanti a farsi avanti sono stati due soli fondi stranieri.
I due fondi avrebbero avanzato offerte troppo modeste secondo il venditore, sicché Banca d’Italia ha riaperto la procedura e si spera ora di convincere alcune banche popolari italiane a presentare offerte per i singoli istituti e non più in blocco entro il 30 settembre, data ultimativa concessa dalla Ue all’Italia per concludere la procedura di vendita o per mettere definitivamente in liquidazione gli istituti. Gli indiziati dei possibili acquisti sono per ora Ubi Banca (già tirata in ballo più volte per un eventuale “salvataggio” di Mps, che finora la banca si è ben guardata dal lanciare), Bper e Banca popolare di Bari.
Quest’ultima è stata a sua volta “aiutata” per 300 milioni di euro per portare a termine l’acquisto di Tercas e il primo agosto scorso ha ceduto un portafoglio di Npl (non performing loans) di tipo “secured” (ossia assistiti da garanzie, in gran parte su immobili) per nominali 480 milioni, con conseguente emissione di tre tranche di titoli, una “senior” (meno rischiosa) cui è stato concesso un rating BBB(High)/Baa1 da parte di DBRS e Moodys e che godrà delle famose (e per ora fumose) Gacs, una mezzanina più rischiosa (rating B(High)/B2) e una junior, la più rischiosa in assoluta, priva di rating.
L’operazione è simile a quella che sta cercando di realizzare Mps ed infatti Banca popolare di Bari avrebbe ottenuto una valutazione pari al 30% del valore lordo di libro dei crediti ceduti; c’è tuttavia da notare che collocare un portafoglio di crediti “secured” la cui tranche junior è di soli 10 milioni è cosa diversa da dover collocare crediti anche “unsecured” la cui tranche junior potrebbe arrivare a 1,6 miliardi o più. Basterà l’intervento di Ubi Banca, Bper e Banca popolare Bari a chiudere la vicenda delle quattro “good bank”?
E se anche fosse, basterà chiudere quella che resta una vicenda marginale per riuscire a far andare in porto operazioni più consistenti e rischiose? Chi vive sperando e non vuole imparare dalla propria storia né fare confronti con l’estero rischia cocenti delusioni, eppure ogni estate continuiamo a sperare che l’anno lavorativo che sta per riaprirsi sia migliore di quello che ci siamo appena lasciati alle spalle.