Ha ancora senso la decisione delle autorità europee e della Bce in particolare di accelerare il passo nell’opera di pulizia di bilancio e di implementazione di regolamentazioni sempre più vincolanti, come Basilea 3, per le banche del vecchio continente e per quelle italiane in particolare? Qualcuno inizia a chiederselo, visto che in pochi giorni dopo l’elezione di Donald Trump come 45esimo presidente degli Stati Uniti lo scenario dei mercati finanziari sta rapidamente cambiando e non necessariamente in meglio, almeno per le banche tricolori.
Il problema più immediatamente identificabile è legato all’aumento dei tassi sui mercati: il Btp decennale guida italiano ha visto il rendimento volare al 2,11% dopo aver sfiorato anche il 2,25% in giornata, con lo spread contro Bund che si è riportato all’1,766% (dopo un picco di 1,877% intraday). Livelli che non si vedevano da oltre due anni e che sono spiegati con l’avvicinarsi del referendum, il crescente timore di una vittoria del “no” e delle possibili ripercussioni sul governo, al punto che gli investitori non escludono ormai che si possa assistere ad una caduta di Matteo Renzi e alle ennesime elezioni anticipate in primavera.
Uno scenario da panico per le banche italiane, le cui tesorerie sono infarcite di Btp e titoli di stato italiani, quegli stessi che sarebbero stati gradualmente venduti nei mesi scorsi da almeno una parte degli investitori esteri che prendevano profitto dei livelli massimi storici toccati dalle quotazioni sotto la spinta di una deflazione che non vuole saperne di passare e degli acquisti sul mercato della stessa Bce guidata da Mario Draghi, che con le sua misure “non convenzionali” ha finora schiacciato sotto zero i tassi a breve dando ossigeno ai governi del Sud Europa e all’Italia in particolare.
Nel frattempo dall’altra parte dell’Atlantico l’elezione di Trump ha aperto scenari impensabili fino alla scorsa settimana per quanto riguarda la regolamentazione dei mercati finanziari e del settore creditizio. La Dodd-Frank Act, legge che tutela investitori e consumatori americani, potrebbe essere revisionata per farla assomigliare maggiormente alla “vecchia” Glass-Steagall Act adottata durante la Grande Depressione del secolo scorso e che prevedeva la separazione delle attività di banca commerciale da quelle di banca d’investimento, accompagnata da una sostanziale deregolamentazione del settore.
In sostanza le banche Usa potrebbero non dover più sottostare a una serie di norme (ad esempio gli stress test annui), purché mantengano un capitale pari ad almeno il 10% del totale degli asset e fornire collaborazione alle valutazioni dell’organo di vigilanza. Verrebbe poi rinviata la Fiduciary Rule, che dall’aprile del prossimo anno richiederebbe ai financial advisor americani di anteporre sempre e comunque gli interessi della loro clientela ai propri. Si resterebbe per ancora un paio d’anni o più allo stato attuale delle cose, dando tempo ai grandi gruppi finanziari Usa di guadagnare laute commissioni.
Al contrario in Europa sembra andare verso una accelerazione nella pulizia di bilancio e verso l’introduzione di norme ancora più restrittive: è di oggi l’ipotesi che Unicredit aumenti il capitale non di 5-8 miliardi di euro come finora previsto, ma di almeno 10-13 miliardi dopo aver effettuato dismissioni (Pioneer AM e Bank Pekao) per vedere i propri indici patrimoniali (in particolare il Cet1) salire non al 12% ma al 14% rispetto all’11% attuale.
Se a questo si aggiunge la piena entrata in vigore, dal primo gennaio 2019, delle norme di Basilea 3, relative ai requisiti di liquidità, il rischio è che le banche europee possano essere almeno temporaneamente più deboli e vincolate delle loro controparti americane, che peraltro il processo di pulizia dei conti hanno avviato fin dal 2009 e che oggi possono godere i frutti del lavoro già svolto sia a livello di istituti di piccole e medie dimensioni (solitamente meglio patrimonializzati) sia di grandi banche (meno patrimonializzate ma più redditizie grazie alla possibilità di effettuare attività di intermediazione e d’investimento).
Mentre qualcuno già grida al “cambio di cavallo” che i mercati starebbero attuando in previsione di una sconfitta di Renzi sul referendum, ovvero di “speculazione ribassista” nuovamente scatenata su banche e titoli di stato italiani, è evidente che proprio nel momento critico in cui istituti come Mps e Unicredit (e forse a breve anche Banca Carige) si trovano a dover chiedere soldi al mercato, o a valutare (come Creval, Popolare Sondrio e Bper) nuove aggregazioni, non senza aver dovuto pagare un obolo più o meno consistente per salvare alcune banche minori (Banca Marche, Banca Etruria, CariChieti e CariFe), calcare eccessivamente la mano da parte delle autorità europee potrebbe rivelarsi controproducente, in primis per le banche italiane.