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Opinioni

Banche e intrallazzi, non è un vizio solo italiano

Banche infedeli, manager avidi, intrallazzi politici e difesa lobbistica di rendite di posizione: l’Italia non ha certo l’esclusiva mondiale, ma quando capita a un gruppo italiano la notizia sembra fare più rumore. Eppure…
A cura di Luca Spoldi
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GoldmanSachs

A giudicare dalle ultime notizie apparse sulla stampa in queste settimane Marco Fratini e Lorenzo Marconi dovrebbero scrivere, e forse lo faranno a breve, un seguito del fortunato pamphlet “Vaffanbanka!” scritto a due mani nel 2008 per Rcs Mediagroup, il principale gruppo editoriale italiano che pure sotto l’ala di una banca, Mediobanca, vive da tempo e che forse dovrebbe lamentarsi dell’”affare” Recoletos, gruppo editoriale spagnolo acquistato nel 2007 per 1,1 miliardi di euro, prezzo giudicato subito eccessivo dagli analisti, come vennero giudicati eccessivi i 9,23 miliardi pagati per Antonveneta Santander da Mps l’anno successivo, affare di cui beneficiarono oltre a Mediobanca stessa per il ruolo di “advisor” a Rcs anche una serie di persone e società molto vicine al Santander come ha ricordato Gaia Scacciavillani.

Che le banche, specie quelle “d’affari”, non siano sempre irreprensibili nella loro condotta e vivano anche di conflitti d’interesse che sinora nessuna regolamentazione al mondo ha saputo eliminare è evidente e noto da tempo, basterebbe ricordare le polemiche seguite un anno fa alla pubblicazione di una lettera polemica al New York Times con cui un dipendente di Goldman Sachs, Greg Smith, annunciò le proprie dimissioni da un gruppo che ormai aveva perso ai suoi occhi ogni etica nella condotta degli affari, con broker e banker che definivano i propri clienti “pupazzi” cui occorreva “cavare gli occhi” e “farsi pagare” il più possibile.

Oppure basterebbe pensare alle inchieste sulle manipolazioni del tasso Libor, che ha già coinvolto nomi come Barclays (obbligata a pagare 450 milioni di dollari di multa), Ubs (che invece ha pagato 1,5 miliardi), Royal Bank of Scotland (che rischia di dover pagare una multa attorno ai 780-800 milioni di dollari) e l’inchiesta aperta dalla Commissione Ue per un’analoga vicenda sul tasso Euribor che coinvolge una dozzina di grandi nomi sui 50 istituti che partecipano alla determinazione di tale tasso (usato come riferimento per tutte le principali emissioni a tasso variabile private o pubbliche che siano, oltre che come parametro su cui costruire i tassi variabili di mutui e prestiti).

A volte le banche, le aziende o persino gli stati, con l’aiuto delle banche (come si è visto nel caso della Grecia), usano strumenti derivati e veicoli finanziari “fuori bilancio” per nascondere perdite (come potrebbe aver fatto la controllata statunitense di Deutsche Bank), per abbellire i bilanci ed evitare “salvataggi” pubblici che farebbero perdere il controllo dell’istituto ai loro azionisti (come è sospettata di aver fatto Barclays, finanziando la Qatar Investment Authority perché il fondo sovrano arabo investisse nell’istituto inglese nel 2008 in piena crisi finanziaria), come accaduto dopo il collasso di Lehman Brothers a fine 2008 a Rbs e Lloyds Banking Group (tuttora in mano pubblica: il Tesoro inglese è socio all’82% della prima e al 40% della seconda).

Altre volte non sono stati gli azionisti a “tutelarsi” cercando di allontanare ogni sorta di “stigma” o danno reputazionale, ma i manager che guidavano gli istituti e i cui compensi multimilionari sono in larga misura legati a bonus variabili il cui ammontare varia in base alle performance non tanto e non solo “industriali” quanto “borsistiche”. Sicché per alcuni è meglio nascondere la polvere sotto il tappeto e lasciare semmai che i problemi (che nel caso di una banca si chiamano crediti “problematici”) si accumulino con discrezione, piuttosto che fare pulizia. Perché fare pulizia, con svalutazioni, abbattimento di avviamenti, accantonamenti ai vari fondi rischio, significa ammettere che si sono compiuti errori e allora addio bonus o addio controllo dell’istituto.

Curiosamente ma non troppo, se poi la banca è italiana (ma un discorso analogo vale anche per molte società operanti nei più diversi settori, specie quelli “ad alta intensità di capitale”, capitale che spesso difetta a banche e imprese italiane) il discredito è ancora maggiore, “grazie” alla incapacità conclamata della nostra classe dirigente pubblica e privata che negli ultimi decenni non ha saputo né ristrutturare l’apparato economico italiano (troppi essendo i vincoli, i conflitti d’interesse, le rendite di posizione che decine di lobbies e caste di ogni genere hanno voluto e saputo tutelare finora) né alleggerire la sovrastruttura burocratico-politico-sindacale, che ha finito col costituire un freno sempre maggiore a ogni tentativo di riforma strutturale del paese.

Le banche infedeli, le assicurazioni che tutelano solo l’interesse del proprio azionista di controllo e non degli assicurati, i governi che occultano disavanzi crescenti causati dalla difesa unicamente degli “insider” ai danni dei giovani e di qualsiasi ammodernamento del paese, quando non casi di corruzione e ruberie varie, non sono un’esclusiva italiana, ma tale appaiono agli occhi di inglesi, francesi o tedeschi, che però si guardano bene dall’accettare controlli esterni su tutte le loro banche, altrettanto legate alla politica e all’interesse di singole “grandi famiglie” quanto quelle italiane e che, per dire, stanno ostacolando in tutti i modi una più netta separazione delle attività più rischiose, ma per questo anche più redditizie, da quelle più tradizionali e meno rischiose, ma anche meno appetibili, del credito.

Viviamo in un mondo tutt’altro che ideale, per questo serve tenere gli occhi ben aperti e senza fare di ogni erba un fascio cercare di regolamentare in modo funzionale ma anche trasparente settori e attività vitali per l’economia di qualsivoglia paese. E allo stesso tempo cercare di favorire un rinnovamento delle strutture dirigenti, private e pubbliche, così che il bene comune torni ad essere la stella polare del comportamento di ciascuno, anche nel proprio legittimo interesse. E’ solo un sogno “choosy” e dobbiamo rassegnarci che qualcosa gattopardecamente cambierà solo perché nulla cambi realmente? Non voglio crederlo.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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