Dice un vecchio detto: attento a ciò che chiedi, potresti sempre ottenerlo. Dopo mesi passati, invano, a cercare una “eccezione” per non applicare le norme comunitarie in ambito di risoluzioni delle crisi (di qualunque tipo: statali, aziendali o bancarie esse siano), ormai improntate alla logica del “bail in”, che prevede che prima di qualsiasi intervento “straordinario” dello stato, a debito delle attuali e future generazioni di contribuenti, un peso considerevole debba essere posto, giustamente, sulle spalle di azionisti e obbligazionisti, non è il premier Matteo Renzi o il ministro dell’Economia e finanze Pier Carlo Padoan, ma il capo economista di Deutsche Bank, David Folkerts-Landau, in una intervista al settimanale tedesco Welt am Somtag, a dichiarare che è in atto una crisi delle banche europee, ed in particolare italiane, e che per superarla servono almeno 150 miliardi di mezzi freschi, da reperire tramite aumenti di capitale (o, meno facilmente, tramite cessioni di asset).
Ovviamente chi trarrà maggior giovamento da una simile imponente opera di ricapitalizzazione in parte anche pubblica, comunque meno pressante che non nel 2008 quando dopo il fallimento di Lehman Brothers in America e di Northern Rock in Gran Bretagna ad intervenire furono senza esitazione due governi “liberali” come quello statunitense e quello britannico, sarà chi ha maggiori problemi, posto che riesca a scaricarne la maggior parte sulle spalle di qualcun altro. A voi che nomi vengono in mente? Mps? Sbagliato, l’istituto senese in fondo aveva a fine marzo “solo” 47 miliardi di crediti deteriorati (Npl) lordi, peraltro coperti per il 49%. Dunque i crediti in varia misura “a rischio” di Mps tre mesi fa o poco più erano “solo” 24 miliardi.
Unicredit, il cui numero uno Jean-Pierre Mustier è impegnato a costruirsi rapidamente una nuova squadra di top manager per poi decidere se varare una serie di cessioni (quote di FinecoBank, di Bank Pekao e di Iapy Kredi, ma forse anche di Pioneer Investments) o un aumento di capitale per ora ipotizzato dagli analisti tra i 4 e i 7 miliardi di euro, di crediti variamente deteriorati sempre a fine marzo ne aveva ancora 79 miliardi lordi ed essendo coperti mediamente al 51,7% significa che i crediti deteriorati netti superavano i 38,15 miliardi. Intesa Sanpaolo, considerata la banca italiana più solida, alla stessa data registrava 62,6 miliardi di crediti deteriorati lordi e 33,1 miliardi di crediti deteriorati netti, con una copertura media del 47,1%.
Senza ulteriormente tediarvi, faccio notare che altri istituti europei, come Deutsche Bank, di cui da qualche tempo si parla in termini sempre meno rassicuranti, hanno i forzieri pieni di crediti deteriorati (e nel caso della banca tedesca di una notevole varietà di derivati a vari livelli di sofisticazione, ovvero di rischiosità). Da qui la visione, preoccupante “ma non come nel 2008” di David Folkerts-Landau. Domanda: se anche l’Italia dovesse ottenere una “eccezione” alle regole comunitarie e la sospensione/slittamento della logica dei “bail in”, chi se ne gioverebbe maggiormente? Il “piccolo” Mps o la “grande” Deutsche Bank, che a questo punto sarebbe autorizzata a chiedere parità di trattamento?
Di più: chi potrebbe intervenire in soccorso “preventivo” alle banche in Europa e in Italia? Da noi il sistema bancario, dopo l’esperimento di dicembre dei versamenti “volontari” al fondo di tutela dei depositi attraverso cui si è posta una pezza per le quattro banche risolte (tra cui Popolare Etruria) ha provato a trovare una propria soluzione “di sistema” col fondo Atlante, ma la raccolta si è fermata molto sotto i ventilati 6 miliardi di euro (a quota 4,2 miliardi), mentre da settimane si sente parlare di un fondo Atlante-2 (o “Giasone” come alcuni lo hanno già ribattezzato), senza che sia stato versato un solo centesimo di euro ed anzi con una serie di puntualizzazioni da parte di vari banchieri tricolori circa la non intenzione di effettuare ulteriori versamenti.
La sensazione è dunque che solo stati con forti gettiti fiscali (uno a caso: la Germania) avrebbero la forza per intervenire in aiuto delle proprie banche e che a beneficiarne sarebbero principalmente i maggiori (e più esposti, in termini assoluti anche se non in termini relativi) istituti. Si sta dunque usando la crisi di Mps, che è una crisi di lunga durata dovuta alla pessima gestione che per anni ha contraddistinto una banca i cui vertici erano diretta emanazione della politica locale e nazionale (non che fosse l’unico esempio in Italia o in Europa, anzi), per ottenere quel beneficio che sul mercato per tanti motivi, a partire da questi anni di politica di austerithy “prima di ogni altra considerazione”, le banche non sono riuscite a ottenere?
Il sospetto è lecito, come è lecito pensare che si voglia utilizzare la crisi e l’intervento pubblico “straordinario” o quanto meno una certa “flessibilità” nell’applicazione di regole comuni, per salvare da un lato quante più poltrone salvabili (a manager e politici) e per avviare ristrutturazioni comunque rese inevitabili dall’avanzare della tecnologia e dalla crescita di offerte alternative alla classica offerta bancaria nel settore del credito. In soldoni: a beneficiarne saranno le grandi banche europee e qualche grande banca italiana, e i loro vertici; a pagarne il costo saranno i contribuenti europei tutti ed italiani in particolare.
Anche perché in Italia le risorse pur essendovi non vengono impegnate facilmente in queste operazioni. Prova ne sia che l’industria del risparmio gestito ha raccolto nei primi quattro mesi del 2016 poco meno di 30 miliardi di euro, mentre nei primi tre mesi dell’anno il saldo tra entrate (premi) e uscite (pagamenti) delle polizze Vita in Italia è risultato pari a 14,1 miliardi. Il gestori del risparmio privato avrebbero dunque i mezzi per investire massicciamente nel settore e avviare a soluzione la crisi bancaria italiana. Se non lo fanno qualche motivo ci sarà, voi che dite?