video suggerito
video suggerito
Opinioni

Attenti a ciò che chiedete, rischiate vi sia dato

Un imprenditore si sfoga: basta parlare di numeri astratti, portiamo il discorso sul terreno della realtà. Ma poi aggiunge: le banche aumentino i prestiti e riducano i debiti. Attenti a quello che chiedete, potreste ottenerlo…
A cura di Luca Spoldi
11 CONDIVISIONI

Immagine

Si sfoga “un imprenditore” a seguito di un commento di Mario Seminerio a un’ intervista al capo economista di Natixis, Patrick Arthus, nella quale l’ipotesi di un default dei titoli di stato è data come “inevitabile per i paesi più vulnerabili della zona euro” (Arthus cita il Portogallo ma tutti hanno pensato a Spagna e Italia, ndr) pur premettendo che non sarà probabilmente un default “violento” come quello che sembrano preconizzare certi “nuovi politici” italiani ma “una ristrutturazione per concambio di titoli ad un tasso inferiore o con una scadenza più lunga”, soluzione che “persone ragionevoli prevedono” come una possibilità, “anziché dire che nulla accadrà” come sono abituati a fare, non solo in Italia, i politici e i banchieri centrali (in entrambi i casi per non creare ulteriore scompiglio). Si sfoga questo imprenditore, dicevo, perché occorre a suo dire portare ragionamenti e numeri astratti “nella vita reale”.

Il problema, ricorda giustamente l’imprenditore, “è la crescita, è aver ormai deindustrializzato intere aree europee ed in particolar modo l’Italia, che aveva ed ha un tessuto produttivo frammentato e questo è un bene in termini di standard qualitativi, ma una debolezza dal punto di vista patrimoniale”. Il problema, aggiunge, “è riportare gli investimenti in Europa, adottare politiche comunitarie degne di tale nome, far fronte comune al continuo dumping attuato da oltre 10 anni dalla Cina che ha divorato interi settori dell’economia”. Pensare di risolvere le cose “solo mettendo soldi in pancia alle banche” e “mettendo al centro delle politiche solo soluzioni finanziarie e non strutturali in termini di investimenti e tasse, non porta a nulla”, si sfoga l’imprenditore secondo cui “dobbiamo crescere, tornare a produrre, e se vogliamo che il mondo sia un mercato aperto che le regole siano uguali per tutti”.

E fin qui non fa una piega o quasi, salvo che trascurare la dimensione finanziaria di questa crisi (e l’errore fondamentale di timing nel tentativo di curarla, in Europa, tramite una ricetta di solo repressione fiscale) rischia di condurre a esiti a dir poco modesti. “Si torni a mettere al centro l’economia reale” chiede giustamente l’imprenditore, che però poi cade in contraddizione aggiungendo “si costringano le banche a fare impieghi e non finanza e si dia un freno all’indebitamento” visto che “negli ultimi 15 anni abbiamo retto i consumi solo facendo leva sull’indebitamento” (peraltro, aggiungo io, senza alcuna crescita del Pil in termini reali, il che forse ci dice cosa sarebbe successo senza ricorrere al debito se, come è poi successo, non fossero comunque state introdotte riforme strutturali) e questo “perché le banche sui prestiti guadagnavano un pacco di soldi, avendo un rischio di capitale molto suddiviso, a discapito di crediti alle imprese”. Così “un sistema finanziario” si sarebbe “sostituito al sistema produttivo”.

Dato per scontato che è vero che le colpe andrebbero sempre divise tra creditori e debitori, mio caro signore, togliamoci almeno quest’ultima illusione: la finanza ha sicuramente vissuto degli eccessi a discapito della “sana” economia reale, ma l’attuale crisi è dovuta precisamente al tentativo, malissimo gestito sinora, di ridurre contemporaneamente sia il debito pubblico (che senza crescita economica non può che continuare a salire per i motivi che ho già detto varie volte) sia il debito privato, attraverso il credit cruch. Aggiungiamo che la “crisi finanziaria” seguita al collasso di Lehman Brothers (indotto a sua volta dalla infelice decisione di non aiutare la banca “colpevole” di un eccesso di “azzardo morale”) ha fortemente indebolito le banche già dal 2008 e che la crisi del debito sovrano europeo ha dato la mazzata finale un anno e mezzo dopo, riducendo al lumicino la possibilità di rifinanziarsi per i maggiori istituti di credito del vecchio continente, che si sono ritrovate (specie in Spagna e Italia) piene zeppe sia di debiti di dubbia esigibilità di privati, sia di titoli di debito di emittenti pubblici.

Se non fosse intervenuta la Bce di Mario Draghi, che come già fatto notare da vari analisti ha salvato l’euro senza sinora spendere un centesimo (comprando tempo intanto che i governi provvedano a varare riforme sistemiche in grado di rilanciare la produttività, ergo la competitività, ergo la redditività delle aziende europee), il sistema sarebbe da tempo collassato ed essendo quella che stiamo vivendo una crisi complessa che al tempo stesso è banco-centrica, bond-centrica e che si scarica sulla domanda interna a causa dei continui incrementi d’imposta (che persino il decreto “del fare” votato in queste ore dalla Camera contiene, puntualmente). Chiedere un nuovo modello del credito è legittimo e auspicabile, puntare sui talenti di ciascun paese, Italia in testa, e non sul vecchio modello del capitalismo familiare è altrettanto legittimo e doveroso, come è doveroso (per citare l’amico Fabio Lalli) pensare positivo perché “la negatività è come una pianta infestante che cresce rapidamente e soffoca luce e aria degli esseri viventi che la circondano” per cui “abbiamo bisogno di ottimismo e positività per cambiare le cose”.

Proviamo però a non cadere in contraddizione noi stessi quando formuliamo delle legittime richieste. O si vuole più debito o meno debito, impossibile avere contemporaneamente entrambi: forse sarebbe stato meglio dire un debito più sostenibile, che poi è un po’ come dire una spesa pubblica e privata più efficiente. Il tutto senza voler minimamente entrare nel merito di cosa sia preferibile, in termini di investimenti strategici, per aiutare la ripresa (per dire: nei prossimi 30 anni in Italia serviranno più cantieri per nuove autostrade e linee ferroviarie, porti, stazioni e aeroporti, o collegamenti informatici a banda larga, secondo voi?). Anche perchè sennò rendiamo troppo semplice il lavoro ai vecchi e nuovi pifferai magici della politica e dell’economia (oltre che della finanza) italiana. Se vi sembra uno sfogo me ne scuso, ma sapete il caldo gioca brutti scherzi anche a noi analisti finanziari, a volte.

11 CONDIVISIONI
Immagine
Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views