Nuova bocciatura dell’Italia da parte del World Economic Forum: l’istituzione internazionale nata per favorire la cooperazione pubblico-privato ha pubblicato oggi un nuovo contributo alla discussione da tempo in atto in merito alla crescente disuguaglianza di reddito e al suo impatto negativo economico e sociale. In tutto il mondo, nota l’ente, non vi è sfida che preoccupi di più i leader politici che cercare di espandere la partecipazione sociale nel processo e nei benefici della crescita economica. Il rapporto del World Economic Forum sulla “crescita inclusiva”, che copre 112 economie, cerca di migliorare la comprensione di come i paesi possono utilizzare una gamma variegata di incentivi politici e meccanismi istituzionali per rendere la crescita economica maggiormente inclusiva dal punto di vista sociale, senza smorzare gli incentivi al lavoro, al risparmio e agli investimenti.
Per l’Italia, che già nel novembre dello scorso anno era stata sonoramente bocciata dalla Banca Mondiale comparendo al 56esimo nel suo ranking economico che identifica i paesi in cui è più facile e interessante avviare un’impresa, non sono propriamente rose e fiori (ma no?). Nonostante l’azione “redistributiva” delle tasse e dei trasferimenti, il nostro paese vede un indice di Gini (che indica il grado di disparità presente in un sistema economico) ancora relativamente elevato, e chiude al 22esimo posto, superato, in peggio, solo da Grecia, Nuova Zelanda, Spagna, Regno Unito, Usa, Israele e Singapore tra tutte le economie sviluppate.
Sarà un caso, ma tra i paesi “meno inclusivi” ossia nei quali la crescita non sta riuscendo a ridurre le disparità economiche e sociali, vi sono alcuni paesi storicamente “liberisti” (e questo non fa una piega) e tutti i “curati” dalla troika salvo l’Irlanda (che però riesce a ridurre fortemente il suo indice di Gini solo grazie a un fortissimo intervento redistributivo tramite tesse e trasferimenti, altrimenti sarebbe con Portogallo, Grecia e Gran Bretagna tra i paesi con un indice di Gini superiore a 50). Questo dovrebbe far riflettere chi è chiamato a decidere quale strategia seguire per rimediare ai difetti del sistema Italia e quali priorità seguire, ma tant’è.
Per quel che riguarda in particolare l’utilizzo di leve di mercato, piuttosto che trasferimenti fiscali, per rendere la crescita meno diseguale possibile, l’Italia, secondo il World Economic Forum, appare con Grecia, Repubblica Ceca, Portogallo, Spagna ed Estonia nel gruppo dei paesi “in maggior ritardo”, finendo nettamente staccata da un gruppo di paesi come Norvegia, Nuova Zelanda, Svizzera, Danimarca, Canada e Gran Bretagna, che hanno “il contesto più inclusivo” ottenuto sia tramite politiche di mercato sia mediante trasferimenti fiscali (paesi che peraltro, sottolinea la ricerca “hanno spazio per migliorare” dato che “nessun paese si è avvicinato al punteggio massimo” nell’utilizzo dei due fattori).
Il risultato della mala gestione italiana è evidente quando si guarda all’andamento del Pil nel periodo 2005-2014 (per l’Italia il tasso medio annuo di variazione è negativo e pari a -0,76%, solo la Grecia fa peggio con un -1,46%), piuttosto che la variazione della produttività del lavoro (anche in questo caso negativa e pari mediamente a -0,46% annuo e in questo caso non c’è nessuno che faccia peggio, col solo Lussemburgo che registra una variazione media negativa, ma inferiore a quella italiana, -0,38%). Scendendo ad analizzare i “pilastri” (si fa per dire) della de-crescita italiana, si scopre che l’Italia si prende tre cartellini rossi sia per l’istruzione, sia per l’impiego, sia per la creazione di ricchezza.
Morale: quanto a competitività totale il “bel paese” finisce ultimo tra le economie avanzate chiudendo al 27esimo posto. Non che le cose vadano meglio sotto il profilo fiscale o l’azione di governo: per quanto riguarda l’entità e l’effetto di tasse e trasferimenti sugli incentivi al lavoro o agli investimenti l’Italia chiude ultima, per il tristemente famoso “cuneo fiscale” si classifica 25esima (su 30 economie sviluppate), balzando “per contrappasso” al settimo posto se si guarda solo al totale delle entrate fiscali in rapporto al Pil (siamo al 42,9%).
Come dire che l'Italia è non solo un paese poco competitivo ma anche uno in cui si tassa tanto e si tassa male, senza ottenere effetti perequativi a livello sociale né riuscire a sostenere in alcun modo la crescita. Viene a nessuno il sospetto che la competitività scarsa e la fiscalità criticabile siano due facce di una stessa medaglia? Non stupisce a questo punto che anche per quanto riguarda l’efficacia dell’azione di governo nel ridurre povertà e disparità l’Italia finisca penultima, tenendosi invece stretta la maglia nera per quanto riguarda lo spreco del denaro pubblico. Ma certo se volete potete sempre consolarvi illudendovi che la colpa del fallimento sempre più evidente dell’Italia, sotto il profilo etico, economico e sociale, sia solo dell’Euro, della Germania cattiva o del destino cinico e baro.