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Opinioni

Anche il Financial Times scopre che la ripresa italiana è a rischio

Wolfgang Münchau, editorialista di punta del Financial Times, scopre che la ripresa italiana non è al riparo da eventuali crisi mondiali. Per di più ai rischi elencati potrebbe ora aggiungersi una guerra contro l’Isis dai costi al momento imprevedibili…
A cura di Luca Spoldi
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Ed ora che succede? Col presidente francese Francoise Holland che dichiara guerra all’Isis, probabilmente per evitare che la destra cavalchi le tensioni che inevitabilmente i sanguinosi attentati di Parigi, e chiede al parlamento francese uno stato di emergenza prorogato per tre mesi ben oltre i limiti previsti dalla Costituzione, quali potranno essere le conseguenze sullo scenario politico ed economico europeo?

Gli analisti sono molto prudenti, ma in un report diffuso ieri il Credit Suisse ha espresso quello che la maggior parte dei colleghi pensa anche quando non lo dice apertamente: che a breve una “virata a destra” della Francia e dell’Europa non può essere esclusa, anche se tra i possibili risultati a medio termine potrebbe esservi un’accelerazione del processo di unificazione europea a partire da temi come la gestione della crisi medio orientale e del conseguente flusso di migranti.

Si vedrà, come si vedrà solo tra qualche mese l’impatto netto che la nuova crisi geopolitica avrà su un’area economica che finora ha continuato a crescere a ritmo blando e in qualche caso molto blando, nonostante i proclami dei governi di turno. Non a caso domenica scorsa Wolfgang Münchau, editorialista del Financial Times mai tenero coi governi italiani (come ben ricordano Silvio Berlusconi e Mario Monti), ha bacchettato le dichiarazioni di Yoram Gutgeld, adviser del premier Matteo Renzi, secondo cui l’economia italiana sarebbe immune da ogni crisi per i prossimi 12-24 mesi grazie ai tagli fiscali e alle riforme del governo italiano.

L’idea che il G7, un club di nazioni ricche, possa essere immune alla crisi è ridicola” ha scritto Münchau, ricordando come “siamo nel ventunesimo secolo” e data la globalizzazione dell'economia nessuno può realmente essere immune da un eventuale ulteriore rallentamento della Cina e dei mercati emergenti europei (Russia in testa, aggiungo io, visto il persistere delle quotazioni del petrolio vicino ai minimi degli ultimi 6 anni).

Münchau e con esso il Financial Times pare dunque essersi reso conto, buon ultimo, di come stiano le cose dopo i dati preliminari del Pil del terzo trimestre dei paesi dell’Eurozona e della Ue-28 diffusi venerdì scorso, che hanno registrato per l’Italia un misero +0,2% rispetto al trimestre precedente (contro un’attesa di mercato pari ad almeno +0,3%), che aveva già fatto commentare agli analisti di Unicredit di come fosse “probabile che la crescita annua dello 0,9%, il target del Governo per il 2015, non si realizzi”.

Pure Münchau ha così notato che in realtà la crescita italiana sta rallentando costantemente da inizio anno: dopo il +0,4% segnato nei primi 3 mesi dell’anno si era avuto un +0,3% ed ora questo ulteriore +0,2%. La capacità del “bel paese” di sostenere un “robusto” tasso di crescita rimane critica sia per la stabilità politica del paese, sia per dare speranza ai giovani di trovare un lavoro, ma anche per la sostenibilità del debito (destinato a restare sopra il 130% del Pil almeno fino al 2018 secondo il governo) e la permanenza dell’Italia stessa in Eurolandia.

Non che l’appartenenza all’euro sia stata finora sfruttata nei migliori dei modi dall’italia: secondo Münchau, che nel 2000 criticò apertamente il modello capitalistico sociale di mercato che ha plasmato le economie tedesca e francese e successivamente le politiche di austerità fiscale “pura e dura” di Angela Merkel (pesantemente pro-cicliche e dunque tali da peggiorare la recessione), l’euro “non ha portato nulla all’Italia, se non una stagnazione”.

Il Pil reale, ricorda il giornalista, è tuttora al livello degli inizi del 2000, “un anno dopo la nascita dell’euro” e resta del 9% al di sotto dei livelli pre-crisi 2008. Se l’Italia non è ancora neppure riuscita a recuperare il calo accumulato negli ultimi 7 anni, è davvero difficile credere che potrà essere immune a un’eventuale crisi economica mondiale, tanto più che il commento di Münchau ancora non poteva tenere presente l’eventuale impatto negativo legato a maggiori controlli sul movimento di cose o persone che potrebbero essere necessari dopo gli attentati di Parigi, né il costo (economico e sociale) di una contrapposizione anche militare all’Isis.

Semmai si potrebbe osservare che più che l’euro a trascinare l’Italia in questo pantano sia stata l’incapacità a far evolvere i modelli di sviluppo economico e di welfare, di uscire da una crisi culturale che dura da anni, ma la sostanza non cambia: la ripresina italiana è tutt’altro che solida e a prova di recessione. Anche perché, e lo abbiamo ricordato ancora di recente, le sofferenze lorde rappresentano oltre il 10% degli impieghi totali e, per di più, rischiano di crescere almeno fino al 2018 nonostante il varo della riforma introdotta dalla legge 132/2015 la scorsa estate.

Questo infatti è quanto è emerso dal Rapporto Cerved Pmi 2015, secondo cui anche se si ottenesse una riduzione del 28% i tempi dei fallimenti e del 20% di quelli delle procedure concorsuali (con tempi per l’estinzione delle sofferenze che scenderebbero da 7,3 a 6 anni), lo stock delle sofferenze raggiungerebbe il suo picco nel 2018, per poi calare fino a 197 miliardi a fine 2020, praticamente tornando sugli stessi livelli dello scorso mese di luglio. Non ha caso Münchau nota ancora che “il processo di pulizia del sistema bancario, dopo la crisi del 2008 e due successive recessioni, è appena iniziato” e dovrà proseguire in un contesto regolatorio molto più “ostico”.

Dall’anno prossimo, infatti, entreranno in vigore le norme europee sul “bail-in” e il governo italiano (come qualsiasi altro governo europeo) non potrà più intervenire per salvare le banche pericolanti, come accaduto ad esempio per il Monte dei Paschi di Siena, se non dopo che gli azionisti e gli obbligazionisti in primis e i depositanti in seconda battuta avranno già sostenuto una parte cospicua delle perdite. “Possiamo essere sicuri che banche marce potranno sostenere la ripresa?” si chiede retoricamente Münchau. La risposta è evidentemente che, al più, molto difficilmente potranno farlo.

Ultimo ma non meno importante dubbio che si fa venire anche Münchau: la priorità di Matteo Renzi in campo fiscale finora è stata quella di assicurarsi che ogni scelta crei più vincitori che perdenti, secondo un criterio squisitamente politico più che economico. “Questo è esattamente ciò che ha fatto Silvio Berlusconi quando era premier” e “non dovrebbe sorprendere che Renzi abbia finito con l’adottare questo approccio”. Münchau nota che anziché riformare la giustizia (e più in generale la pubblica amministrazione, aggiungo io) Renzi è partito dall’alleggerire la fiscalità sulla prima casa e “questo gli garantirà maggiori voti, ma non cambierà l’economia. Lo abbiamo già visto in precedenza”. Già: peccato che gli elettori italiani sembrino avere una memoria dei pesci rossi e dimenticarsi puntualmente dei fallimenti già sperimentati. Ma anche questo per i miei lettori non è una novità, come spero si ricordino.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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