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Opinioni

Alla Grecia l’uscita dall’euro costerebbe molto cara

Tsipras continua ad accusare l’Europa ma alla fine un compromesso sul debito greco si troverà: la Russia si è infatti defilata e ad Atene un default e l’uscita dall’euro costerebbero molto più cari di ulteriori riforme, per quanto impopolari.
A cura di Luca Spoldi
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Finirà così: che dopo molti proclami, strappi, dichiarazioni sui massimi sistemi e sui massimi valori, all’ultimo minuto ultimo un accordo tra la Grecia e l’Eurozona verrà trovato, consentendo ad Atene di evitare il default, pronto a scattare a fine mese su un debito complessivo di 313 miliardi di euro se non si dovesse procedere al puntuale rimborso di circa 1,5 miliardi di aiuti del Fondo monetario internazionale (Fmi), di restare nell’euro e di vedere ulteriormente alleviate le condizioni da rispettare, in cambio di qualche “serio impegno” su riforme che in ogni caso non possono essere rimandate all’infinito, come quella sulle pensioni.

L’alternativa sarebbe del resto ancora più dolorosa per la Grecia, al di là della retorica nazionalista e delle illusioni che in tanti coltivano anche in Italia in merito a una uscita “indolore” da quel pantano che è diventata, oggettivamente, un’unione rimasta a mezza cottura, fatta di accordi tra banche e di una moneta unica che anziché ridurre le discrepanze tra il Nord e il Sud del vecchio continente sembra aver finito con l’accentuarle. Guardiamo ai fatti: solo oggi il ministro delle Finanze russo, Anton Siluanov, ha chiarito che “non sono a bilancio” eventuali fondi a sostegno della Grecia e che la Russia non intende farsi coinvolgere nelle trattative sull’eventuale ristrutturazione del debito dell’Ucraina.

Inutile insomma farsi venire improvvise simpatie per Putin, che al di là delle parole e delle prove “muscolari” ha già il suo bel da fare per tentare di mantenere in carreggiata un’economia su cui pesano le sanzioni economiche di Usa e Ue, scattate a causa della crisi politica e militare tra Mosca e Kiev. Mentre “l’opzione Russia” sfuma (quella cinese non essendosi mai manifestata) per Alexis Tsipras , che solo ieri aveva etichettato, di fronte al Parlamento di Atene, come “criminale” l’atteggiamento del Fmi e della Ue nelle trattative sulla riduzione del debito greco, il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem ha ribadito ancora una volta, stamane, che “la Grecia richiede tutte le attenzioni” dei paesi membri dell’eurozona.

Secondo il ministro della Finanze olandese proprio per questo sarebbe opportuno far slittare l’elezione del nuovo presidente dell’Eurogruppo a luglio, così da evitare di impelagarsi in un “dibattito sulle procedure” che distoglierebbe l’attenzione dalla soluzione del problema del debito greco. Per Dijsselbloem (che concorre ad un secondo mandato alla presidenza dell’Eurogruppo, in contrapposizione alla candidatura del collega spagnolo Luis De Guindos, che sembra godere del sostegno dei paesi del Sud Europa) la porta resta dunque aperta, ma “sta ai Greci presentare una serie di alternative. Quello che non vogliono l’hanno abbondantemente messo in chiaro (ulteriori misure di austerity, ndr), questo significa che dovranno presentare altre proposte alternative”, anche se è chiaro che la soluzione non potrà giungere nel corso della riunione dell’Eurogruppo di domani quanto, semmai, nell’ambito del Consiglio Europeo in calendario il 25 e 26 giugno prossimo o da colloqui immediatamente successivi, visto che ancora ieri da Atene filtravano indiscrezioni che confermavano come una nuova proposta greca non è per ora neppure stata abbozzata a livello tecnico.

Ma cosa cambierebbe per la Grecia o quei paesi, come l’Italia o la Spagna, dove alcune forze politiche guadagnano consensi criticando apertamente l’appartenenza all’euro e suggerendo come “soluzione” l’uscita dalla moneta unica e il ritorno alle vecchie valute nazionali? Dipende da caso a caso: per Atene, in particolare, le grandi società e una parte della società civile (i più “ricchi”) non sembra particolarmente sconvolta dall’idea di una “Grexit”, che implicherebbe peraltro l’immediata applicazione di limiti ai movimenti di capitale, la probabile applicazione di tassazioni patrimoniali “straordinarie”, una svalutazione nell’ordine del 20%-30% o più della “nuova” dracma (o lira, o peseta nel caso in cui si provasse questa strada in Italia o Spagna) nei confronti dell’euro (altrimenti avrebbe poco senso abbandonare la valuta unica) e dunque un parallelo crollo della domanda interna in misura analoga.

Perché? Non certo perché qualcuno si illuda che le conseguenze sopra ricordate possano essere evitate: non fosse altro che il caso, recentissimo, di Cipro (o dell’Argentina, o della stessa Islanda) è esemplificativo al riguardo. Piuttosto, come nota stamane l’agenzia Bloomberg, semplicemente chi poteva mettere i capitali al sicuro da ogni ipotesi di abbandono dell’euro l’ha già fatto da tempo (e sta continuando a farlo con l’allungarsi dei tempi necessari a trovare un compromesso). Dal 2009 a oggi oltre 115 miliardi di euro di depositi di aziende e famiglie greche sono uscite dalla banche elleniche (da 240 miliardi si è pasati a circa 125 miliardi di depositi) per riversarsi all’estero e dunque non subirebbero alcuna decurtazione restando denominati in euro (o dollari o altra valuta “forte”).

Non solo: le aziende sanno anche che a fronte di un crollo quasi immediato e pressoché inevitabile della domanda interna, se non altro perché essendo un paese con una bilancia commerciale largamente deficitaria la Grecia si troverebbe a sperimentare un netto aumento del costo dei prodotti importati, a partire dall’energia per finire ai beni di consumo, a fronte dell’impossibilità di offrire sostegno all’economia rifinanziando il debito pubblico, se non a tassi molto più elevati (i tassi sui titoli greci a 2 anni sono tornati in questi giorni attorno al 29%, quelli a 10 anni al 12,9%, a gennaio erano rispettivamente al 14% e al 9,7%), farebbe seguito un altrettanto certo taglio dei costi.

Di quali costi? Ma del costo del lavoro, innanzi tutto, dato che la prospettiva sarebbe per i lavoratori greci unicamente tra rischiare di perdere il posto di lavoro e vedersi ulteriormente decurtate le retribuzioni reali (magari “ammorbidendo” il tutto con una robusta dose di inflazione che apparentemente consenta un modesto incremento nominale dei salari). A quel punto, nel giro di qualche anno, le aziende che avranno saputo resistere alla crisi e alla ulteriore “selezione naturale” che espellerebbe le imprese più deboli, potrebbero aver recuperato redditività ed essere competitive sia sul mercato interno sia, eventualmente, su quello internazionale, dove al momento (ribadiamolo) la Grecia semplicemente non è presente in alcun mercato a media o elevata specializzazione e dunque si trova a dover competere sul prezzo con concorrenti di paesi che possono vantare già ora un più basso costo del lavoro.

All’Italia (o alla Spagna) potrebbe andare differentemente? In parte sì, visto che entrambi i paesi godono di cospicui flussi di esportazioni che almeno in parte potrebbero compensare la caduta della domanda interna, sempre che nel frattempo non finiscano in recessione anche i paesi di sbocco delle nostre merci e servizi. Tuttavia i costi non sarebbero modesti, specie dopo una prolungata fase recessiva già vissuta in questi anni di “cura letale” a base di austerity. Nella vita di indissolubile non esiste nulla, neppure il matrimonio, figuriamoci dunque una unione monetaria che finora non è riuscita a trasformarsi in un’unione politica e a far prevalere le politiche di coesione e di redistribuzione del reddito su base egualitaria al suo interno.

La Grexit resta dunque un’opzione, ma per Atene sarebbe una liberazione a caro prezzo, che Tsipras e Varoufakis cercheranno di evitare con un compromesso all'ultimo minuto. Per l’Italia e la Spagna potrebbe peraltro essere un interessante esperimento, fatto in larga parte sulla pelle altrui per quanto non del tutto indolore: se le tensioni sui mercati finanziari permanessero e la crescita dovesse proseguire a ritmo inferiore a quello auspicato dal governo il rischio che le “clausole di salvaguardia” (54 miliardi per il triennio 2016-2018) scattino inesorabilmente è concreto, anche perchè i soldi finora prestati ad Atene (42 miliardi complessivamente) potrebbero non essere restituiti tanto presto nè interamente, ove anche venissero rimborsati nel tempo. Con l’unica alternativa di trovare il modo di tagliare la spesa pubblica di altrettanto, alla faccia di “tesoretti” e “bonus” assortiti.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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