Come due facce di una stessa medaglia, stamane mi sono capitati sotto gli occhi due dati solo in apparenza tra loro molto distanti, quello dell’andamento del rapporto debito/Pil in Eurolandia e quello della capitalizzazione di mercato dei maggiori gruppi del settore auto mondiale. Quanto al primo, secondo Eurostat alla fine del secondo trimestre nella Ue-17 il rapporto debito/Prodotto interno lordo (Pil) era salito complessivamente al 90% (contro l’88,2% di fine marzo e l’87,1% del giugno 2011). Nella Ue-27 il rapporto sale all’84,9% dall’83,5% di fine marzo (era all’81,4% nel giugno dello scorso anno). La cosa non deve sorprendere, visto che l’Europa sta attraversando una dura recessione in buona misura auto-inflitta dal “virtuoso” ricorso ad una severa stretta fiscale, depressiva a breve e medio termine, nel tentativo di rassicurare i mercati circa la sostenibilità dell’euro e del debito sovrano dei paesi che partecipano all’Unione europea, a partire dai PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna).
Tra i singoli stati membri la maglia nera va alla Grecia, con un debito/Pil salito al 150,3% a seguito del costante crollo del Pil, che procede più velocemente del taglio della spesa pubblica e pertanto del debito, seguita dall’Italia al 126,1% e dal Portogallo (117,5%) per motivazioni pressoché analoghe. In valore assoluto tuttavia il debito più elevato è quello tedesco (2.169,354 miliardi di euro), seguito da quelli di Italia (1.982,239 miliardi) e Francia (1.832,599 miliardi). Finora Germania e Francia sono riusciti a finanziare agevolmente (soprattutto Berlino) il proprio debito grazie all’afflusso di liquidità da tutta Europa sui titoli di stato tedeschi, che a causa dei problemi dei PIIGS pagano interessi più bassi di quanto dovrebbero unicamente per meriti propri. Non è detto che continui così: Mario Draghi anche oggi, parlando al Bundestag tedesco, ha ribadito che occorre mandare “un chiaro segnale agli investitori sul fatto che i loro timori sull’Eurozona sono senza fondamento”.
I tassi di interesse, ha ricordato Draghi ai parlamentari tedeschi, “non devono essere identici in tutta l’Eurozona, ma è inaccettabile che ci siano nette differenze dovute alla frammentazione dei mercati dei capitali o all’idea che l’Eurozona si romperà”. E prima della decisione della Bce di varare un piano anti spread che contempla anche interventi illimitati sui mercati dei titoli di stato, “con un focus sui bond con maturità residua di uno-tre anni”, l’accesso ai finanziamenti “era sempre più influenzato dal luogo di provenienza della richiesta, piuttosto che dalla credibilità e dalla qualità del progetto”. Una discriminazione inaccettabile per il banchiere centrale europeo, ma finora molto meno per i politici tedeschi, che tuttavia dovranno presto o tardi decidere se accettare di ridurre le distanze tra la virtuosa Germania e il resto d’Europa (ad esempio accettando la nascita degli Eurobond, oltre che le misure “non convenzionali” per quanto “condizionate” della Bce a sostegno principalmente di Spagna e Italia) o rompere l’Eurozona.
L’altra notizia come detto apparentemente c’entra poco o nulla coi numeri di prima e riguarda il settore auto: orbene, scorrendo la classifica dei maggiori gruppi al mondo per capitalizzazione elaborata da Thomson Reuters, si scopre al primo posto (e non è una sorpresa) Toyota con quasi 136 miliardi di dollari di capitalizzazione (la capitalizzazione è la somma del valore del capitale sociale, ai prezzi correnti di mercato, e del debito ed indica in sostanza il valore complessivo di un’azienda), seguita da Volkswagen con circa 84,4 miliardi e da Honda Motor con 59,3 miliardi. Più staccate seguono Daimler (52,4 miliardi), Bmw (50,3), Hyundai Motor (48,6) e General Motor (41,3); ancora più indietro Nissan Motor (39,8 miliardi), Ford (38,1) e via via tutti gli altri gruppi. Fiat è diciottesima in classifica con 6,8 miliardi di capitalizzazione, davanti alla cinese BYD Auto (5,4 milairdi) e alla francese Peugeot (2,7).
Visti questi numeri non occorre essere un genio per capire perché Sergio Marchionne esita così tanto a “buttare” (o investire) qualche miliardo di euro per rinnovare più frequentemente e più radicalmente la propria gamma prodotti, a differenza di altri concorrenti come Volkswagen o Bmw, e perché si concentri su una strategia di produzione che “insegue” la domanda chiudendo impianti in Europa, rinnovandoli negli Usa e ampliandoli o creandone di nuovi nei paesi emergenti, che si tratti della Serbia, del Brasile (dove col raddoppio dello stabilimento brasiliano di Pernambuco si punta a produrre altre 250 mila vetture l’anno) o della Cina (dove Fiat tratta col partner locale Guangzhou Automobile Group per aumentare la capacità dell’impianto di Changsha dalle attuali 140 mila fino ad un massimo di 500 mila vetture l’anno, probabilmente iniziando a produrre uno o più modelli di Suv a marchio Jeep).
L’assenza di capitali privati ha storicamente fatto sì che le aziende italiane, con pochissime eccezioni, siano sempre rimaste dei nani costretti a ritagliarsi uno spazio tra giganti mondiali, il tentativo di garantire uno stato sociale ampio (che purtroppo è spesso degenerato in casi di sprechi e corruzioni) e le resistenze all’introduzione di progressive riforme del suo impianto ha finito col generare un debito pubblico “monstre”. In entrambi i casi la perdurante assenza di crescita rischia di rendere insostenibile a lungo termine tanto la posizione delle aziende italiane (anche di Fiat) quanto del welfare: o si torna a crescere e si trovano capitali per farlo o non ci saranno posti per tutti nelle scialuppe di salvataggio (spesso già occupate dai nostri amati politici, imprenditori, banchieri e figli molto poco “choosy” dei medesimi).