Per uno strano scherzo del destino, due volti molto diversi dell’Italia si confrontano in queste ore sulle agenzie stampa. Da un lato Alitalia, ex compagnia aerea “di bandiera” che da anni attraversa una crisi apparentemente irreversibile, dall’altra Fiat Chrysler Automobiles, che dopo una cura fatta anche di nuovi modelli organizzativi, nuovi contratti e razionalizzazione degli impianti produttivi, non in modo indolore, è tornata a macinare utili.
Sembrano, e forse sono, i due volti dell’Italia che da un lato non riesce a trovare la forza di abbandonare modelli di business che ormai appartengono al passato, nati in un’epoca e con presupposti politici prima ancora che economici molto diversi da quelli attuali, dall’altro coglie i frutti della sua capacità di fare buon viso a cattivo gioco e adattarsi al “nuovo che avanza”, pur quando non lo si riesce a dominare appieno ma semmai lo si subisce.
Alitalia, secondo quanto ha calcolato l’ufficio studi di Mediobanca, tra il 1974 e il 2014, è già costata al settore pubblico e dunque a tutti i contribuenti italiani qualcosa come 7,4 miliardi di euro. Miliardi che rischiano di lievitare ancora perché dopo che il 67% dei dipendenti ha detto “no” all’accordo sindacale faticosamente raggiunto nelle scorse settimane, le banche e gli “imprenditori coraggiosi” chiamati al capezzale della compagnia dal governo Berlusconi e che insieme a Ethiad hanno finora mantenuto in vita Alitalia, contando da ultimo di ristrutturarla per poter poi cederla (probabilmente a Lufthansa) nell’arco dei prossimi 2-3 anni, quasi certamente non procederanno a ulteriori ricapitalizzazioni.
Così adesso la via quasi obbligata è quella dell’amministrazione straordinaria e della nomina di un commissario, o del fallimento. Il commissario, peraltro, per far continuare a volare gli aerei e non portare i libri in tribunale dovrà incassare 230 milioni di euro al mese così da coprire costi che al momento sono pari a 60 milioni al mese per i diritti di traffico e di scalo, 55 milioni per il carburante, 51 milioni per gli stipendi, 35 milioni per i noleggi, 16 milioni per la manutenzione.
A rischio sembrano in particolare le tratte non profittevoli, guarda caso quasi sempre a lungo raggio dato che negli ultimi anni la compagnia aveva prima abbandonato poi ripristinato questi voli, molti dei quali ancora non raggiungono il pareggio. Tagliare le rotte potrebbe essere solo un primo assaggio di uno “spezzatino” che rischia di essere l’ultimo destino di ciò che resta di una compagnia una volta di “interesse nazionale” ma che ormai non è più strategica, nonostante i proclami di alcuni politici, neppure per motivi turistici, visto che i flussi verso il Bel Paese sono tornati a salire in modo del tutto indipendente dalle tribolazioni di Alitalia, seguendo invece l’andamento della ripresa economica in Italia e nel resto del mondo.
Del resto al giorno d’oggi, spiegano gli esperti del settore, le compagnie aeree perdono soldi strutturalmente o quasi, anche chi come Ryanair ha un costo del lavoro che è pari alla metà di quello di Alitalia, e se fanno soldi lo fanno solo (come Ryanair appunto) rivendendo dopo pochi anni a prezzi appena scontati aerei comprati in grandi quantità così da ottenere forti sconti dai produttori, facendo cioè “trading” nello stesso modo in cui, da anni, fanno trading (di vascelli) le grandi compagnie di trasporto marittimo.
Fiat Chrysler Automobiles, da parte sua, ha chiuso i primi tre mesi dell’anno con ricavi in crescita del 4% annuo a 27,72 miliardi di euro (contro attese pari in media a 27 miliardi) e un utile netto rettificato di 671 milioni (+27% rispetto ai 528 milioni dei primi tre mesi del 2016), una cinquantina di milioni meglio delle previsioni di mercato. Il tutto a fronte di un indebitamento netto industriale risalito ma meno del previsto da 4,59 miliardi di fine 2016 a 5,11 miliardi (ci si attendeva che toccasse i 5,9 miliardi).
Numeri che hanno consentito a Sergio Marchionne di confermare gli obiettivi per l’intero 2017: ricavi netti tra 115 e 120 miliardi di euro, reddito operativo di oltre 7 miliardi, utile netto rettificato di oltre 3 miliardi. Per il manager dal pullover blue che alcuni hanno accusato di voler svendere Fca alla prima occasione, o di non possedere alcuna vera strategia industriale ma di essere solo un abile giocatore di poker, è certamente una bella soddisfazione.
Accostare brutalmente i numeri di Alitalia e di Fca fa capire quanta distanza separi le due “Italia”: la prima con 12 mila dipendenti perde ogni mese l’equivalente di quasi 20 mila euro a dipendente, la seconda con 306 mila dipendenti in tutto il mondo guadagna circa 2.200 euro a dipendente.
Entrambe le società sono private, entrambe sono state aiutate dallo stato italiano più volte in passato, entrambe operano in mercati aperti alla concorrenza, entrambe erano una volta a capitale totalmente italiano ma sono ora partecipate da capitali internazionali, come capitato del resto ad altri “campioni nazionali” come Telecom Italia. Il concetto stesso di “campione nazionale”, se mai ha avuto senso, non ha più ragione d’essere in un mondo come quello attuale.
Chi lo ha capito e ha agito di conseguenza ora si trova nella condizione di essere tornato a generare ricchezza, chi ha provato a resistere opponendosi con ogni mezzo al cambiamento paga ora lo scotto di tali battaglie di retroguardia. I cui costi, si spera, non ricadranno ancora una volta sui contribuenti italiani tutti, visto che a beneficiarne sarebbe solo un numero molto limitato di soggetti. Ma nell’Italia delle caste e delle lobby, non è detto che ciò che sembra economicamente evidente risulti politicamente praticabile.