Anni fa Alan Greenspan parlando della bolla speculativa delle “dot.com” che sbarcavano a prezzi folli a Wall Street sul finire degli anni Novanta coniò il termine “irrational exhuberance” (esuberanza irrazionale) per descrivere tale fenomeno. Che sia stata esuberanza irrazionale, pura isteria o freddo calcolo delle possibilità future di crescita del fatturato e degli utili solo il tempo ce lo dirà, ma certo il fatto che oggi a Wall Street il titolo Alibaba, principale gestore cinese di e-commerce, abbia visto un ritardo di oltre due ore (se volete potete gustarvi il video in streaming sul sito del Nyse) perché Barclays, incaricata di gestire l’asta di apertura, non riusciva a far incrociare gli ordini in acquisto con quelli in vendita la dice lunga sulla volatilità a cui siamo ormai arrivati sui mercati finanziari.
Così come il fatto che il titolo abbia poi aperto a 92,7 dollari per azione contro i 68 dollari del prezzo di collocamento (il massimo di una forchetta indicativa che era già stata rivista al rialzo rispetto alle indicazioni iniziali), per poi toccare meno di 20 minuti un picco massimo di 99,7 dollari (corrispondente, per chi ha ceduto i titoli, a circa il 40% di guadagno rispetto al prezzo di collocamento di 68 dollari) e poi ridiscendere nuovamente al di sotto dei 92,7 dollari dell’apertura la dice lunga quanto meno sulla frenesia di queste prime ore “newyorkesi” della società. Al di là degli alti e bassi del titolo (che per lo strategist di SaxoBank, Peter Garnry, ha un “fair value” di 90 dollari per azione), è interessante capire quanto Alibaba sia un “fenomeno” a sé e quanto l’ennesimo simbolo di un inesorabile spostamento del baricentro economico (e politico) mondiale dagli Stati Uniti all’Asia.
Anzitutto qualche numero: a 99 dollari per azione la capitalizzazione di mercato di Alibaba ha toccato i 255 miliardi di dollari, entrando nella “top ten” delle maggiori capitalizzazioni societarie a Wall Street al nono posto alle spalle di General Electric (che per il mercato “vale” poco meno di 263 miliardi di dollari) e subito davanti alla catena di negozi Wal-Mart (poco più di 245 miliardi di dollari di capitalizzazione). Certo: Apple resta la regina incontrastata dei mercati mondiali con quasi 610 miliardi di capitalizzazione, Google (terza maggiore capitalizzazione con 401 miliardi) comunque comprarsi quasi due Alibaba offrendo uno scambio “alla pari” coi suoi titoli, persino la “vecchia” Microsoft con poco meno di 385 miliardi di capitalizzazione è ancora distante. Ma i grandi nomi del commercio tradizionale e dell’e-commerce a stelle e strisce non hanno di che stare allegri: Procter & Gamble non arriva a 228 miliardi di capitalizzazione, Coca-Cola supera di poco i 183 miliardi, Amazon oscilla tra i 150 e i 151 miliardi, eBay vale “appena” 65,4 miliardi.
Inutile cercare di fare confronti con nomi italiani: Yoox di miliardi di dollari ne vale, per il mercato, poco più di uno, World Duty Free e Autogrill assieme sfiorano a malapena i 4,3 miliardi. Merito (o colpa) dei mercati di riferimento e della capacità di servirli adeguatamente, investendo in innovazione e tecnologia. Il mercato cinese cui si rivolgono Taobao Marketplace e Tmall (le due principali piattaforme di Alibaba) è già ora vastissimo e continua a crescere a ritmi che in Italia, ma pure negli Usa, ci si può solo sognare la notte: per la società di consulenza strategica McKinsey, ad esempio, l’e-commerce cinese a fine 2015 varrà 395 miliardi di dollari di giro d’affari, il triplo di quanto valeva a fine 2011. Il mercato statunitense è grande ma non così grande: dovrebbe arrivare a fine anno a valere 72,4 miliardi di dollari.
Ma la vera forza di Alibaba e della Cina in generale è la sua capacità di gestire numeri enormi con costi (e in tempi) minimi: pensate che nel “Singles Day” (la festa nazionale dei single), che in Cina è il giorno in cui si fanno più acquisti online, Alibaba gestisce (o meglio ha gestito, lo scorso anno) qualcosa come 5,8 miliardi di dollari di vendite, processando 254 milioni di ordini e spedendo 156 milioni di pacchi (sempre nel 2013 la media giornaliera è stata invece di 17 milioni di spedizioni). Per fare un confronto, nel “Cyber Monday”, lunedì che segue il “Black Friday” (ossia il venerdì del giorno del Ringraziamento) e che negli States è il giorno più importante di tutto l’anno per le vendite online, si sono registrati nel complesso vendite per 2 miliardi di dollari (mentre l’italiana Yoox ha fatturato in tutto il 2013 solo 455,6 milioni di euro, per quanto in crescita del 21% rispetto all’anno prima).
Morale della favola: non saranno le infinite e sterili discussioni sulla “salute” o “debolezza” dell’euro, i proclami di “indipendenza” di questa o quella regione del vecchio continente, né le fumose ipotesi di introdurre dazi doganali in un mondo che si vorrebbe al tempo stesso sempre più aperto alle nostre esportazioni, a rallentare la crescita dell’Asia e dei colossi cinesi in particolare. Come appare semplicemente naif, per non dire altro, ogni tentativo di battere le aziende cinesi sul costo del lavoro (specie se non si riuscirà a ridurre, in Italia, l’incidenza del cuneo fiscale sullo stesso). Se non puoi batterli unisciti a loro, dice un antico proverbio. Forse sarebbe ora che ci si rendesse veramente conto della forza travolgente di Pechino e si provasse a stringere alleanze mirate, finché siamo in grado di offrire in cambio merce pregiata come i marchi del “Made in Italy”, le competenze della manodopera italiana, il genio dei nostri creativi, professionisti e imprenditori. Queste sì che sarebbe una riforma “strutturale” in grado di far ripartire la nostra economia.