L’ipotesi di una “staffetta” tra Enrico Letta e Matteo Renzi resta al centro dei discorsi in rete e sui media italiani, ma non riscuote grande credito né sui media esteri, che si limitano a prendere atto che l’incontro mattutino tra il premier italiano e il segretario nazionale del PD non pare aver portato a risultati determinanti per le sorti del governo in carica (ma lo stesso Renzi, su Twitter, precisa: “Leggo tante ricostruzioni sul Governo. Quello che devo dire, lo dirò domani alle 15 in direzione. In streaming, a viso aperto”). In altri tempi sarebbero bastati questi “spifferi” per far scattare nuove vendite su titoli di stato e azioni italiane, ma così non è oggi, col Btp decennale guida che vede il rendimento scivolare sul 3,59% e lo spread contro Bund (in salita all’1,70% di rendimento) oscillare sotto la soglia psicologica del 2%, all’1,89%.
Sempre oggi, poi, all’asta dei Bot a 12 mesi il Tesoro, che ieri l’altro aveva precisato come ogni ipotetica soluzione “sistemica” o “consortile” riguardante i crediti problematici delle banche italiane non possa finire col passare per un intervento pubblico (concetto ribadito oggi anche dal presidente di CdP, Franco Bassanini, secondo cui l’ente controllato all’80% dal Tesoro e al 20% dalla Fondazioni bancarie italiane non può essere coinvolto nella vicenda), registra un nuovo successo pieno, con 8 miliardi di euro collocati (il massimo previsto) a fronte di oltre 13 miliardi di richieste, al tasso medio lordo dello 0,676%, dallo 0,685% precedente.
Altrettanto insensibili alle bizze e giravolte della politica italiana sono i titoli finanziari: da Unicredit a Intesa Sanpaolo, da Assicurazioni Generali a UnipolSai, ma soprattutto titoli di banche popolari come Bpm e Bper sono stati fatti oggetto d’acquisto grazie a un mix di fattori positivi tra cui il miglioramento dello scenario macro europeo (o almeno tedesco), il prender corpo dell’ipotesi “bad bank” nella versione “consortile”, ossia tramite la creazione di uno o più veicoli finanziari da parte di investitori come Mediobanca (che ha fiutato il business e sta cercando di stringere accordi con istituti di medie e piccole dimensioni prima dell’estate) o degli istituti maggiori (il numero uno di UniCredit, Federico Ghizzoni, ha confermato che la sua banca assieme a Intesa Sanpaolo e al fondo americano Kkr, che già si è distinto negli ultimi mesi per aver rilevato “a sconto” importanti pacchetti di crediti problematici in Europa, stanno trattando per cercare di arrivare a un accordo prima di giugno).
Sullo sfondo sono almeno tre i temi che restano da approfondire, dalla cui evoluzione molto più che dal nome dell’inquilino di Palazzo Chigi potrà dipendere una parziale riapertura del credito a banche e famiglie italiane: da un lato si ipotizza con sempre maggiore insistenza che Mario Draghi, numero uno della Bce, stia cercando di trovare il modo di far arrivare quell’imponente massa di liquidità che finora è rimasta giacente nelle casse delle banche, nonostante gli auspici della Bce, magari facendo acquistare dalle banche europee (spagnole e italiane in particolare) crediti “in bonis”, previa cartolarizzazione degli stessi. Ipotesi affascinante che però trascura il fatto che al momento non esiste un mercato europeo delle cartolarizzazioni, per cui occorrerà prima costituire lo stesso, poi trovare il modo di valutare correttamente gli asset in questione (ossia i crediti “in bonis”, sebbene questo sembri meno problematico che non per i “non performing loan”).
Altro tema sul tappeto è l’eventuale aggregazione di istituti di medie dimensioni per rafforzarne il patrimonio ed evitare che la polvere tolta “virtuosamente” dai bilanci delle maggiori banche si vada accumulando sotto il tappeto di centinaia di istituti di dimensioni minori, ma l’esperienza di Bankia, nata dalla “fusione a freddo” di Banco Financiero y de Ahorros (nato a sua volta dalla fusione di Bancaja e Caja Madrid) con Caja Insular de Canarias, Caixa Laietana, Caja de La Rioja, Caja Ávila e Caja Segovia per dar vita al maggior istituto operante sul mercato spagnolo ma sfociata in una nazionalizzazione “d’emergenza” nel maggio 2012 per evitarne il collasso, ha dimostrato come le fusioni pilotate dalle autorità spesso sono foriere di ulteriori problemi che rischiano di scaricarsi sui contribuenti, dunque di aumentare un debito pubblico che nel caso italiano è già da tempo oltre i livelli di guardia (tanto più vista la pressione fiscale tra le più elevate d’Europa).
D'altro canto la strenua resistenza degli azionisti di controllo (e in molti casi dei sindacati), come si è visto nei casi Mps, Banca Carige e Bpm (oltre che Banche Marche o Popolare di Legnano) rende difficile in una fase di lenta uscita dalla recessione che si possano vedere molte fusioni “spontanee”, anche se alcune grazie alla “moral suasion” di Banca d’Italia potrebbero concretizzarsi nel corso dei prossimi mesi (da tempo si parla di Bper-Banca Etruria piuttosto che di Popolare Vicentina-Veneto Banca, mentre alcuni rumor suggeriscono un interesse, peraltro già smentito dagli interessati, per un’aggregazione tra Banca Profilo e una popolare lombarda come Ubi Banca). Complementare a questo resta il problema di come ricapitalizzare le banche più traballanti, proprio a partire da Mps (per la quale si profila un duplice intervento, da un lato alcune fondazioni bancarie, dall’altra alcuni fondi sovrani esteri, per rilevare il 33,5% in mano a Fondazione Montepaschi e garantire la sottoscrizione del futuro aumento da 3 miliardi di euro), cercando così di superare la “mannaia” degli stress test della Bce che per essere “credibili” agli occhi dei mercati potrebbero dover fare qualche vittima qua e là in Europa.
Tutti e tre questi temi (assieme ad un quarto più “operativo”, quello della ridefinizione dei business plan e dei perimetri d’attività, tema questo che potrebbe avere un’ulteriore pesante ricaduta in termini occupazionali) sono in grado di fornire ulteriori spunti e “benzina” per rialzi delle quotazioni dei titoli in borsa, ma difficilmente consentiranno che il denaro, che pure è stato immesso in termini più che abbondanti nel sistema, finisca con l’essere messo nel giro di pochi mesi a disposizione di aziende e famiglie per sostenere la ripresa. Uno scenario di cui probabilmente si rendono benissimo conto tanto Enrico Letta quanto Matteo Renzi, ma che non hanno alcun interesse ad ammettere né l’uno né l’altro protagonista dell’ennesimo futuro scontro fratricida della politica italiana.