Era dal 2012 che i mercati finanziari occidentali non vivevano un agosto così negativo e per l’Europa in particolare, finora considerata l’area più promettente dove investire per quanto riguarda i mercati azionari, agosto ha significato diffuse prese di profitto, perché quando si tratta di portare a casa i guadagni i grandi investitori internazionali non guardano in faccia a nessuno e prendono profitto là dove ne hanno fatto maggiormente. E quest’anno i rialzi maggiori erano stati segnati proprio dai listini europei.
Prima delle crisi di Atene e Pechino l’Eurostoxx50 era salito da inizio anno ad un massimo del 22%; poi tra la crisi greca, che per la verità aveva impressionato molto marginalmente i gestori americani, e quella cinese (che invece li ha preoccupati decisamente di più), la capitalizzazione dei listini azionari mondiali è calata di circa 8,5 triliardi di dollari, di cui 5,3 triliardi solo in agosto. Basterebbe questo dato a far capire come ormai l’economia mondiale sia una stanza di cristallo in cui più che i deboli segnali di accelerazione o decelerazione della crescita “reale” a contare sono le politiche monetarie.
Del resto la crisi cinese è figlia della decisione del partito comunista di Pechino di impostare un piano quinquennale con un target di crescita medio annuo (il 7%, in calo dal 7,5% del precedente piano quinquennale) che solo grazie ad una politica monetaria accomodante è stato per alcuni anni agevolmente superato, per poi diventare di colpo un obiettivo difficile da raggiungere quando Pechino, temendo giustamente un surriscaldamento eccessivo dei prezzi di materie prime e immobili, ha provato a stringere la corda, promettendo una politica fiscale più moderata ma cercando di irrigidire le condizioni di accesso al credito.
Da novembre a oggi la Cina ha dovuto abiurare tale impostazione, tagliare cinque volte i tassi d’interesse ufficiale e svalutare due volte lo yuan, che si era apprezzato fin troppo contro il dollaro. Nel frattempo la Federal Reserve, che già un anno e mezzo fa aveva suonato la campanella di fine ricreazione per i mercati emergenti annunciando prima l’avvio del “tapering” (la graduale riduzione, sino all’azzeramento, del programma di acquisto di bond sul mercato, o quantitative easing, che era stato a più riprese esteso e ampliato, fino ad arrivare a ritmi da 80 miliardi di dollari di acquisti mensili), poi lasciando intendere che, visto che la disoccupazione è ormai calata a livelli pre-crisi 2008 e la ripresa appare solida (anche se non produce particolari spinte inflattive), i tassi dallo zero attuale sarebbero tornati gradualmente verso livelli più “normali”.
Il tutto non significa che Janet Yellen sia pronta a far risalire i tassi di uno o due punti percentuali nei prossimi mesi, ma tant’è: abituati a un cordone di sicurezza rappresentato da tassi nulli e liquidità abbondante, i mercati hanno iniziato a chiedersi se non fosse il caso di tornare a guardare con maggiore attenzione a dati endogeni (come le varie statistiche macroeconomiche su produzione, consumi e prezzi) ed esogeni (crisi geopolitiche e variazioni delle politiche monetarie e fiscali di questo o quel paese o area economica).
Così neppure le rassicurazioni subito filtrate da membri del board della Bce circa il fatto che Mario Draghi non intende stare a guardare e, a fronte di un’inflazione che resta distante dalla soglia del 2% annuo a cui la Bce vorrebbe pilotarla e mantenerla il più possibile stabilmente, è pronta a estendere a sua volta il proprio programma di quantitative easing anche oltre i livelli finora previsti (vale a dire oltre il settembre del prossimo anno e/o oltre i mille miliardi di euro di acquisti complessivi).
L’aria sui mercati è cambiati e i temporali estivi rischiano di “rompere il clima” e portare a ulteriori precipitazioni degli indici di borsa nei prossimi mesi. Intendiamoci: non è prevedibile che le borse cedano di schianto il 5% o 10% o 20% e le banche centrali in America come in Europa o in Asia stiano a guardare. Ma a nessuno è sfuggito che se fino a sei mesi o un anno fa ad ogni mezzo passo falso dei mercati i banchieri centrali rassicuravano circa la propria determinazione a fare “qualsiasi cosa” fosse necessaria per garantire sostegno alla debole ripresa in atto, specie in Europa, compreso un continuo sostegno ai mercati (che con la propria crescita garantivano un aumento di ricchezza almeno potenziale che l’economia reale non era in grado di offrire), ora il “qualsiasi cosa” sembra più circoscritto a futuri interventi a sostegno dell’economia reale, appunto, magari come merce di scambio a fronte di nuove riforme o di una ristrutturazione delle politiche fiscali.
Già, le politiche fiscali: mentre con l’euro l’Europa si è data una moneta unica e con la Bce ha trovato il guardiano della stessa, le politiche fiscali del vecchio continente restano tuttora molto varie, per quanto unite formalmente sotto l’insegna dell’austerità (che di tutte non è in assoluto la migliore bandiera da seguire, visto che tale impostazione è per sua natura fortemente pro-ciclica e dunque tendenzialmente recessiva, a breve termine). Non potrebbe essere altrimenti, dirà qualcuno, visto che le esigenze della Germania non possono essere le stesse dell’Italia non tanto perché in Germania non si sia fatto ricorso al debito pubblico (anzi), quanto perché le condizioni delle due economie (ma la stessa cosa vale pressoché per tutte le singole economie europee) sono fortemente disallineate.
Così il punto centrale torna a essere quello di una necessaria maggiore omologazione delle economie del vecchio continente, per reagire quanto meno in modo coeso e coerente alle sfide che i mercati stanno iniziano a percepire. Per rendere coese e coerenti le economie del vecchio continente sarebbe tuttavia necessaria un’unione politica e quindi fiscale che ad oggi resta un lontano e non ben definito (come tempistica e come percorso) traguardo, al punto che non cessano (anzi) le voci di coloro che dicono: se non ci si muove, meglio disfare tutto e tornare alle valute e politiche monetaria nazionali che restare a metà del guado.
Così i mercati, per loro natura portati a valutare maggiormente gli stimoli concreti e con effetti a più breve termine che non i progetti secolari dagli esiti incerti, tirano il fiato, sembrano guardarsi indietro e rendersi conto che dopo quattro anni di continui progressi delle quotazioni il “toro” di borsa può aver bisogno di prendersi una pausa. Se sarà di qualche settimana o mese dipenderà molto da come le banche centrali (Fed e Bce in testa) decideranno di agire nell’ultima parte di quest’anno e nei primi mesi del 2016. Per ora, intanto, il vecchio detto di borsa “vendi in maggio e vattene” si sta dimostrando quanto mai azzeccato.