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Opinioni

Agosto 2013: sterili polemiche e incerte prospettive

Sarà colpa della calura estiva, ma politici, banchieri e imprenditori italiani sembrano fare fatica ad affrontare in modo deciso il tema della crisi e continuano a parlare d’altro. Mentre gli italiani si interrogano sul proprio futuro…
A cura di Luca Spoldi
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Da quando, nell’anno 2000, ho lasciato un “dorato” posto di lavoro come gestore patrimoniale per offrire i miei servizi di consulenza e analisi finanziaria attraverso una mia società (6 In Rete Consulting), il mio calendario si è alterato. Sebbene per motivi fiscali apra l’esercizio il primo gennaio per concluderlo il 31 dicembre di ogni anno, di fatto il mio “anno di lavoro” si apre il primo settembre, concludendosi de facto sotto Ferragosto. Camminando per la strada, incontrando amici e conoscenti che di mestiere sono commercianti, promotori finanziari, impiegati, operai, bancari, poliziotti, carabinieri o finanzieri (in entrambi i sensi, sia colleghi che operano nel settore della finanza sia membri della Guardia di Finanza) in questa “fine d’anno” sento continuamente rivolgermi la domanda: “secondo te quanto ancora durerà la crisi?” Perché per quanto i nostri politici parlino d’altro, si arrovellino su questioni assolutamente irrilevanti per la stragrande maggioranza degli italiani come la sorte del signor Silvio Berlusconi o la modifica dell’Imu piuttosto che lo slittamento del previsto innalzamento di un punto dell’Iva, agli italiani continua a premere solo una cosa: quel che riserverà a loro e ai loro figli il futuro.

Ma la domanda non deve trarre in inganno: agli italiani, per lo meno quelli che conosco io, non interessano tanto gli scenari macroeconomici, la variazione del Prodotto interno lordo (che sebbene in calo del 2% a fine giugno rispetto ad un anno prima resta di una grandezza consistenet: oltre 1.375 miliardi di euro negli ultimi 12 mesi secondo i dati Istat) quanto le prospettive dei vari settori o anche, come comprensibile, delle singole aziende. Prendete il comparto dell’abbigliamento: è da sempre uno dei settori trainanti dell’economia italiana ma da qualche anno sta soffrendo dopo essere stato oggetto di importanti operazioni finanziarie in un recente passato. Il bello di tali operazioni è che spesso consentono di dare un futuro a gruppi che per motivi vari (crisi economiche, mancanza di un erede, divisioni tra gli azionisti) rischierebbero di scomparire in pochi anni una volta venuto meno la figura carismatica del fondatore o dei suoi eredi diretti. Il lato negativo è che un investitore finanziario vuole (giustamente dal suo punto di vista) massimizzare il ritorno a breve-medio termine (un tempo l’orizzonte degli investimenti era attorno ai 3-4 anni, ora si è alzato sui 6-7), il che fa sorgere ogni volta interrogativi circa il passo successivo che attende i gruppi o singoli loro rami d’attività che vengono coinvolti in tali operazioni.

Prendete i marchi dell’ex gruppo Marzotto: se Hugo Boss, rilevato dal gruppo italiano nel 1991 e poi ceduta nel 2007 al gruppo Permira, sembra essersi lasciata la crisi alle spalle, più incerto è il destino degli altri marchi, da Valentino (e l’annessa licenza M Missoni), ceduta nel 2012 alla holding finanziaria del Qatar, Mayhoola,  a Mcs (l’ex Marlboro Classic) che dopo essere passato lo scorso aprile dal fondo Permira a Emerisque Brand, fondo che controlla tra l'altro il marchio di abbigliamento americano Lee Cooper, sta ora affrontando un piano di ristrutturazione che ha allarmato i sindacati italiani dopo l’ufficializzazione di 99 esuberi su 166 addetti alla produzione (numero che è poi stato ridotto in seguito ad un accordo tra azienda e parti sociali), il taglio della “linea donna” e l’eliminazione della “linea Falcon”e la decisione di lasciare la fabbrica di Valentino Fashion Group di Maglio di Sopra, dopo che la crisi ha ridotto a poco più di un centinaio di milioni di euro il fatturato annuo generato dai 170 negozi del marchio. Quella dei resti del gruppo Marzotto è solo una delle migliaia di storie di crisi e/o ristrutturazione che colpiscono il settore manifatturiero italiano ma colpisce più di altre perché sino a sei anni fa la famiglia di Valdagno era sembrata in grado di dar vita a un colosso mondiale, di cui ormai rimangono poche, sparse, tracce.

Colpa (o merito) della globalizzazione, che accelera trasformazioni che un tempo richiedevano anni per compiersi e non sempre dà modo ad aziende e parti sociali di adattarsi con sufficiente rapidità nel modo meno doloroso possibile per tutti. Ma come dicevo il fatto che si tratti di uno dei settori di punta dell’economia italiana e di un gruppo che fino a pochi anni fa era in lotta per la leadership mondiale fa pensare. Soprattutto dovrebbe far pensare i nostri politici, i nostri banchieri, i nostri imprenditori. Dovrebbe togliere loro il sonno nel tentativo di trovare nuovi modelli di business, nuove regole condivise, nuovi modelli di credito e di fiscalità. Peccato che nella calura estiva il mio “anno lavorativo” si stia ancora una volta chiudendo sui toni dimessi delle solite vecchie polemiche, delle solite vecchie strumentalizzazioni di parti di fatti che non incidono minimamente sul futuro degli italiani e dei loro figli. Salvo forse una ristretta corte di “clientes” dell’una o dell’altra parte. Dicono a Napoli che perché un furbo campi occorrono almeno due fessi: non sarà che in Italia ci sia un’abbondanza di fessi, visto che sembrano esserci così tanti furbi? Speriamo in bene per l’anno prossimo, anche se ho il sospetto che l’Italia continuerà a sembrarmi triste vista dall’estero, non soltanto da Parigi.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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