AAA: A come Agosto, mese che si prospetta non proprio tranquillo per gli investitori italiani, tra i timori che la crisi russo-ucraina possa sempre sfuggire di mano (mentre si cerca di capire su chi impatteranno negativamente le sanzioni economiche decise da Stati Uniti e Unione Europea contro la Russia e quelle che Mosca a sua volta ha minacciato come ritorsione, col consorzio del Grana Padano che ha lanciato un primo grido d’allarme che verosimilmente non resterà l’unico) e i dubbi sulla capacità del governo Renzi di fare riforme strutturali senza le quali il rischio “commissariamento” (diretto o indiretto) è elevato. A come Alitalia, che dopo aver bruciato nella fornace qualcosa come 4,5 miliardi di euro di contributi pubblici e un altro miliardo di investimenti privati ha accettato di convolare a giuste nozze con Ethiad, non senza che la vicenda assumesse fino all’ultimo i toni della farsa per l’attenzione spasmodica della “grande stampa” italiana all’unico tema di cui sinceramente si poteva anche evitare di parlare (a chi andrà la “poltrona”di presidente: ce la farà Luca Cordero di Montezemolo o preferirà evitare di dare un buon pretesto a Sergio Marchionne per “sollevarlo” dalla presidenza della Ferrari).
A come Argentina, che si è vista bacchettare dal giudice Griesa per un paginone pubblicitario comprato sul Wall Street Journal per offrire la propria versione dei fatti (in sostanza: il giudice avrebbe finito col provocare il default impedendo il pagamento di 539 milioni di dollari di interessi sui titoli “concambiati” tra il 2005 e il 2010 da oltre il 90% dei possessori di titoli di stato finiti in default nel 2001, ma non da una minoranza di investitori tra cui un gruppo di fondi hedge guidati dalla Elliot Management dell’investitore miliardario Paul Singer che appellandosi al Tribunale di Manhattan si è poi visto riconosciuto il diritto ad essere rimborsato al 100%, danneggiando tutti coloro i quali avevano accettato il concabio, ottenendo mediamente il 30% dei capitali investiti originariamente). Il giudice ha infatti sottolineato come se è vero che i possessori di tali bond hanno il diritto di vedersi regolarmente pagati gli interessi (cosa che l’Argentina era pronta e in grado di fare) è altrettanto vero che anche i possessori dei vecchi titoli di stato non concambiati (“holdout”) godono degli stessi diritti.
Agli occhi di un italiano la vicenda argentina può sembrare più distante della crisi ucraina o degli incerti destini di Alitalia, ma così non è visto che sono 50 mila (su circa mezzo milione di investitori che nel 2001 si ritrovava ad avere titoli di stato argentini in portafoglio) gli italiani che non hanno mai accettato le offerte di Buenos Aires e dunque sperano che il caso si riapra e di non dover perdere integralmente il proprio investimento. In particolare ci sperano un centinaio di investitori che come segnala l’agenzia Bloomberg si sono rivolti allo studio legale dell’avvocato Rudolph Di Massa, il quale ha appena chiesto al Tribunale di Manhattan di ottenere il sequestro dei 539 milioni tuttora congelati nelle casse di Bank of New York Mellon non essendo stato possibile procedere al pagamento degli interessi a causa della sentenza del giudica Griesa. Per il rimborso e il pagamento integrale degli interessi su questi titoli di stato sarebbero necessari in tutto 210 milioni di dollari.
Il caso è distinto da quello dei fondi “avvoltoi” Usa, non solo per le cifre in gioco (i fondi hedge chiedono in tutto 1,5 miliardi di dollari) ma anche per la tipologia di investitori: nel caso italiano si tratta quasi esclusivamente di piccoli investitori privati che talvolta si sono ritrovati le obbligazioni argentine all’interno del portafoglio obbligazionario gestito del proprio fondo pensione. Più che in ulteriori ingiunzioni da parte dei tribunali americani, tuttavia, la soluzione in cui si spera è affidata alle negoziazioni che proseguono tra i fondi hedge e alcune banche guidate da Jp Morgan e Citigroup. Sempre secondo l’agenzia Bloomberg si starebbe trattando sull’offerta definitiva, indicativamente intorno a 80-85 centesimi di dollaro per ogni dollaro di valore nominale dei titoli (dunque oltre il doppio di quanto offrì a suo tempo Buenos Aires), titoli che poi resterebbero nelle casse delle banche. In attesa di cosa? In attesa che, sgombrato il campo dal rischio di un “default bis”, l’Argentina sia in grado di tornare sui mercati finanziari regolarmente emettendo nuovi titoli di stato.
Come potrebbero guadagnarci le banche? In due modi: anzitutto se l’Argentina tornasse a emettere si riaprirebbe un mercato importante, quello del collocamento dei titoli stessi, in grado di generare per le banche importanti flussi commissionali. Inoltre a fine anno scadrà la clausola “pari passu” che vincola Buenos Aires ad un identico trattamento di tutti i suoi creditori (ossia tanto di chi ha accettato il concambio nel 2005-2010 quanto di chi lo rifiutò). Passato quel termine nulla vieterebbe all’Argentina di proporre una nuova offerta, migliore della attuale, ai fondi hedge americani (ed eventualmente agli investitori italiani o di altra nazionalità) e così rimuovere ogni ostacolo giuridico. Se l’offerta fosse pari o superiore a quanto le banche sono pronte a offrire oggi ai fondi Usa di fatto l’acquisto dei titoli di stato argentini sarebbe solo un’operazione “ponte”, quasi un’anticipazione di credito, che frutterebbe verosimilmente agli istituti “prestatori” un margine di guadagno dato dalla differenza tra quanto sarà pagato ai fondi (che comunque hanno acquistato i titoli a prezzo scontato) e quanto l’Argentina eventualmente dovesse proporre. E vissero tutti felici e contenti? Chissà, per ora deve passare Agosto.