Il premier Enrico Letta è stato chiaro: serve un governo in carica per evitare che quest’autunno gli italiani paghino per intero e senza ulteriori sconti o dilazioni l’Imu (pure sulla prima casa) e l’incremento dell’Iva ordinaria di un punto percentuale (dal 21% al 22%). Chi fosse tentato di staccare la spina magari strumentalizzando il fatto che il governo delle “larghe intese” (ma dai fragili equilibri interni tra Pd e Pdl) ha finora più rimandato che operato per un radicale cambiamento di rotta (non solo ma anche in ambito economico) se ne dovrebbe assumere tutti i rischi. Ma in verità gli italiani anche con un governo saldo corrono il rischio concretissimo di dover pagare caro ogni ulteriore incertezza dello scenario macro, che molto lentamente e con prudenza sembra migliorare grazie alla tenuta della Germania, degli Usa e della Cina, oltre che per merito delle speranze di una ripresa del Giappone che il premier Shinzo Abe sta provando in tutti i modi, anche agendo sulla leva fiscale, di far concretizzare.
Avendo infatti il governo Berlusconi sottoscritto (e quello Monti a sua volta confermato) gli impegni in sede europea concretizzatisi nell’adesione ad un “fiscal compact” alla tedesca, il rischio che l’economia del Belpaese sperimenti una nuova frenata continua ad essere elevato, nonostante il mercato si stia mostrando più benevolo di quanto fosse possibile immaginare ancora a inizio anno, con uno spread tra Btp e Bund sceso sotto il 2,5% sui minimi degli ultimi due anni e un rendimento del decennale al 4,15% sul mercato secondario (contro il 4,5% circa di costo medio del debito). Ma cosa prevede il fiscal compact? Che l’Italia porti il rapporto debito/Pil entro il 60% da qui al 2030. Il che significa, secondo stime formulate alla fine dello scorso anno dalla Commissione Ue, mantenere un avanzo primario del 5% l’anno per quasi un ventennio, qualsiasi sia lo scenario macroeconomico. Un impegno che resta virtualmente impossibile visto che non sono riusciti in tanto neppure i paesi ex-comunisti dell’Europa dell’Est che pure hanno profondamente ristrutturato la propria economia pur di entrare a far parte della comunità europea negli scorsi anni.
Siccome l’ottimismo resta l’ingrediente segreto per avere successo nella vita sia a livello individuale sia di impresa o finanche di stato nazionale, cerchiamo di capire come e dove dovrebbe operare Letta: anzitutto occorrerà ribadire in tutte le sedi che il disavanzo che conta non è il “semplice” rapporto debito/Pil, ma la sua componente strutturale, ossia al netto degli oneri (o dei benefici) legati all’andamento del ciclo economico, che in questo momento resta negativo e che da 15 anni non è mai più stato significativamente positivo per l’Italia a causa, come ho ripetuto più volte, della totale assenza di un’azione riformatrice degna di questo nome (e in molti casi anche solo di una più modesta opera di manutenzione della politica economica e fiscale del paese in un modo che avesse un minimo di coerenza con quelle che avrebbero dovuto essere pro tempore le priorità nazionali). Una crescita del Pil attorno al 2% comporterebbe una trentina di miliardi di maggior ricchezza, di cui la metà circa finirebbe sotto varie forme nelle casse dello stato; il calo del costo medio del debito dal 4,5% attuale al 3,5% farebbe risparmiare a sua volta una quindicina di miliardi di euro di minori interessi sul debito pregresso (che comunque continuerebbe a crescere, salvo ipotizzare che a una crescita reale del Pil si accompagnasse un’inflazione dell’1,5%-2% senza che i mercati richiedessero alcun maggior rendimento dei titoli di stato, ipotesi al limite del verosimile).
In tutto sarebbero una trentina di miliardi di euro di benefici ogni anno, ma il fiscal compact impegna il governo italiano a tagliare spese o reperire nuove risorse per i prossimi 17 anni per oltre il doppio di questa cifra (sui 75-80 miliardi di euro). Letta lo sa bene e per questo prova a far ripartire la “stagione delle privatizzazioni” che però non sembra la panacea di ogni male. Da un lato, infatti, i mercati attuali, caratterizzati dalla richiesta di nuovi capitali da parte sia delle banche, impegnate a rafforzare i propri ratios patrimoniali, sia delle imprese, alla ricerca di nuove fonti di credito con cui sostituire il diminuito credito bancario, non vedono al momento alcuno stato varare privatizzazioni significative, perché per riuscire a raccogliere capitali sarebbe necessario offrire sconti più che generosi. Dall’altro se poi a finire sul mercato, a prezzi da saldo, fossero solo le residue partecipazioni in società come Eni o Enel, dimostratesi in grado in questi anni di remunerare il capitale con dividendi pari mediamente al 6%-6,5% annuo, a fronte di un beneficio comunque insufficiente a coprire il “gap” si unirebbe il danno di dover rinunciare a flussi reddituali ben superiori al costo medio del debito pubblico (in parte diverso è il discorso per la partecipazione in Finmeccanica, vista la forte ciclicità del settore in cui opera e dunque la maggiore aleatorietà dei flussi reddituali che la società è in grado di generare).
Certo, ci sarebbe da attendersi probabilmente un generale “efficientamento” delle società che dalla mano pubblica finissero in mani private, ma ciò potrebbe avvenire solo dopo che siano state varate regolamentazioni di settore a vantaggio di una maggiore concorrenza, o si andrebbero solo a trasferire per pochi spiccioli delle rendite a qualche “amico” (vi ricordano niente le privatizzazioni di Autostrade o Telecom Italia?). Insomma: bene che vada sarà un percorso lungo e tortuoso, prima che l’economia italiana possa tornare a svilupparsi in modo sano e possibilmente più socialmente equo di quanto non sia il quadro attuale. Il che è forse la migliore garanzia “sulla vita” per il governo in carico, posto che dalle parole si passi finalmente ai fatti in materia di “fare”, perchè è difficile pensare sia che la crescita possa giungere all'imporovviso a tassi del 2% o più all'anno se non si modificheranno profondamente le condizioni nelle quali le imprese debbono operare in Italia rimuovendo non solo e non tanto i residui vincoli che irrigidiscono il mercato del lavoro (perchè se permettete mentre il capitale può essere un fattore perfettamente mobile essendo virtualmente eterno, non così lo sono immobili e fattore lavoro, in quanto gli uni quanto gli altri subiscono un processo di obsolescenza che ne può causare la non più utilizzabilità doposoli pochi anni di crisi) quanto le mille inefficienza, le mille rendite di posizione, i mille condizionamenti culturali che vincolano l'Italia ad un grande passato ma anche ad un incerto presente.