L’Europa tira un sospiro di sollievo: Banco Espirito Santo, istituto finora controllato dall’omonima famiglia portoghese attraverso una complessa catena di controllo (che ricorda per molti versi quelle di molte aziende italiane quotate a Piazza Affari a partire da “nomi storici” come Fiat, Pirelli o Generali, solo di recente in parte semplificate) sarà salvato. Per farlo però dovrà di fatto “morire” e rinascere a miglior (si spera) vita passando attraverso una procedura di “bail in” molto diversa da quelle finora adottate in casi analoghi (da Fortis a Royal Bank of Scotland) negli ultimi anni in Europa, tanto che il titolo azionario cede attorno al 90% rispetto alle quotazioni pre-crisi e gli analisti dubitano possa recuperarre se non marginalmente. Eppure tutti sembrano felici, compresi alcuni dei soci principali, perchè?
Facciamo un passo indietro: la decisione di adottare questa procedura, che prevede lo scorporo delle attività “sane” in una newco (Banco Novo) che finirà temporaneamente sotto controllo pubblico, prima di essere nuovamente privatizzato, dato che dei 4,9 miliardi di euro con cui Banco Novo sarà ricapitalizzato ben 4,4 miliardi proverranno dal Fondo bancario speciale di risoluzione creato nel 2012 in ottemperanza agli impegni presi dal Portogallo nei confronti della “troika” Ue-Bce-Fmi in cambio degli aiuti internazionali (erogati secondo una procedura di “bail out” già adottata per Grecia e Irlanda), mentre le attività “tossiche” (i prestiti in sofferenza nei confronti di altre società controllate dalla famiglia Espirito Santo) finiranno una “bad bank” parimenti neo costituita il cui controllo resterà tuttavia in capo ai vecchi azionisti (e agli obbligazionisti “junior”) che dovranno procedere alla liquidazione accollandosi le perdite che emergeranno, nasce dall’esigenza di attenersi alle nuove norme europee, in base alle quali nessuno stato membro può impiegare soldi dei contribuenti se prima gli azionisti e obbligazionisti “junior” di banche in crisi non hanno partecipato alla copertura delle perdite (per un minimo dell’8%).
Norme varate, dopo quasi due anni di tira e molla, agli inizi del maggio scorso (anche se l’entrata in vigore definitiva non è prevista prima del 2016) dopo una prima “prova sul campo” rappresentata dal salvataggio, appunto tramite una procedura di “bail in”, di Cipro (dove a pagare non sono stati i contribuenti, come in Grecia, ma azionisti, obbligazionisti e titolari di depositi sopra la soglia garantita dal fondo interbancario di garanzia), che avevano allarmato le agenzie di rating, che fino a qualche mese fa ripetevano a disco rotto che se approvate queste norme avrebbero pesato sui meriti di credito (“rating”) delle banche europee col rischio che si potesse vedere una generale riduzione di un paio di “scalini” degli stessi, con conseguenti rialzi degli oneri di rifinanziamento per gli istituti del vecchio continente. Il peggioramento dei rating è in effetti avvenuto, ma a macchia di leopardo, non sempre di due scalini e in larga misura a causa delle diverse prospettive dei conti di ciascun istituto e dello scenario macroeconomico dei singoli paesi che non di queste norme.
Si vedrà ora se il “salvataggio” (post mortem) di Banco Espirito Santo riaprirà la polemica o offrirà una dimostrazione della validità di questa nuova procedura che accumuna azionisti e obbligazionisti “junior” (ossia coloro che investono in bond e carta commerciale a più elevato rendimento ma con minori garanzie emesse dalle banche per rifinanziarsi) cercando di spezzare la logica perversa del “troppo grande per fallire”. Un primo risultato è stato già ottenuto: si è evitato il “default” di Banco Espirito Santo e questo, nonostante il costo pagato dagli attuali soci, fa sì che pure il Credit Agricole (che pure è il secondo maggior azionista avendo il 14,6% del capitale) veda oggi il titolo risalire in borsa, come accade alla maggioranza dei titoli finanziari europei. La Commissione Ue a sua volta ha subito giudicato positivamente l’intervento e si può facilmente capire il perchè.
Varato dalla banca centrale portoghese nell’arco del fine settimana, a mercati chiusi, dopo che già la scorsa settimana era stata imposta una decisa “pulizia di bilancio” tradottasi in una perdita record di 3,6 miliardi di euro a fine semestre dopo accantonamenti per 4,25 miliardi per coprire i crediti concessi ad altre società del Gruppo Espirito Santo, l’operazione si traduce in una ricapitalizzazione ben più corposa di quella che si aspettava il mercato (si parlava della necessità di un aumento da “almeno” 2,5 miliardi di euro, vale a dire poco più della metà di quanto verrà effettivamente iniettato nelle casse dell’istituto) per riportare il coefficiente patrimoniale Core equity Tier 1 (CeT1) dal 5% a cui risultava caduto a fine giugno a sopra il 7% minimo obbligatorio.
Inoltre il fatto che il Portogallo abbia varato la procedura senza esitazione (e senza troppi riguardi per una famiglia potente come gli Espirito Santo) dovrebbe ridare credibilità all’Asset quality review della Bce che si sta svolgendo in queste settimane e ai relativi “stress test” i cui risultati saranno resi noti a partire da ottobre e che potrebbero rivelare ulteriori debolezze del settore creditizio europeo cui porre rimedio altrettanto rapidamente e decisamente (uno dei motivi per cui la stessa Bce sta già provando a predisporre una rete d'emergenza con le misure annunciate a giugno che dovrebbero al tempo stesso ridurre la stretta creditizia europea e sostenere la ripresa economica). Chi pagherà il conto? Anzitutto, come detto, gli azionisti e gli obbligazionisti “junior”, poi, inevitabilmente, i dipendenti del gruppo perché se una parte degli attivi si tradurrà in perdita non sarà possibile evitare una ristrutturazione anche decisa (e dolorosa) delle attività.
Sarà poi interessante capire, dal punto di vista di un contribuente italiano, se anche a Roma si recepirà rapidamente la lezione che sta arrivando in queste ore da Lisbona, o se ancora una volta si farà orecchie da mercante continuando a concionare di “riforme istituzionali” che nulla cambiano della sostanza della struttura economica e di potere di questo paese, che più che mai avrebbe invece bisogno di riportarsi al passo pena restare definitivamente staccato dalla già debole e incerta ripresina del vecchio continente. Una cartina di tornasole potrebbe essere la conclusione della vicenda Alitalia, dove Poste Italiane sembra essere riuscita a evitare ulteriori oneri per sé (e quindi per i contribuenti), ma la fragilità degli assetti proprietari in gran parte delle banche e delle aziende italiane è evidente.
Con imprese mediamente più piccole di quelle di altri paesi europei e non, concentrate su produzioni a minor valore aggiunto, con un settore del credito meno efficiente, una minore capacità di finanziare l’innovazione e una classe “digerente” legata ad una cultura economico-sociale ferma agli anni settanta-ottanta, se non lo facesse l’Italia rischierebbe davvero grosso. E dato che l’estate è storicamente il periodo più “provvido” di provvedimenti “d’emergenza” (che tali in realtà non sarebbero, in quanto dipenderebbero dalla volontà di non cambiare, costi quel che costi) in questo caso non ci sarebbe da stupirsi se a pagare i conti fossero gli italiani tutti. Finché un “bail in” non ci separi, si potrebbe concludere.