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Opinioni

A chi fa gola la poltrona di Draghi?

Dopo che il numero uno della Bce è tornato a chiedere ai governi europei di varare le riforme necessarie alla crescita, divampa la polemica sui derivati siglati da Draghi quando era a capo del Tesoro italiano. A chi giova?
A cura di Luca Spoldi
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C’è in corso una guerra sotterranea per la presidenza della Bce? A sospettare si fa peccato, ma ogni tanto ci si becca ed è curioso che proprio oggi, dopo che Mario Draghi è tornato a “bacchettare” i governi europei spiegando che la politica monetaria da sola non può (checché ne pensino a Berlino) dare origine a una ripresa dell’economia reale in assenza di riforme strutturali il cui varo spetta ai governi (che finora fanno orecchie da mercante per non perdere il residuo sostegno popolare dopo anni di recessione acuita da “ricette” che, specie in Italia, si sono tradotte più in un ulteriore aumento di imposte che nel varo di riforme sul lato della spesa), alla vigilia di un euromeeting a Bruxelles che domani dovrebbe affrontare due temi importanti come l’Unione Bancaria e la lotta alla disoccupazione giovanile ma rischia, a usare un eufemismo, col partorire l’ennesimo “topolino” visto le divergenze ancora esistenti tra i vari paesi membri, proprio oggi dicevo sia esplosa la polemica, innescata da un articolo sul Financial Times immediatamente ripreso dai media italiani, circa il ruolo di Draghi alla fine degli anni Novanta al Tesoro (di cui fu direttore generale dal 1991 al 2001, prima di diventare governatore di Banca d’Italia e poi presidente della Bce).

Secondo il quotidiano britannico, infatti, il Tesoro rischierebbe perdite fino a 8 miliardi di euro su una serie di operazioni in derivati aperte negli anni immediatamente prima (o “subito dopo”) l’ingresso dell’Italia nell’euro, ipotesi che secondo gli operatori non ha pesato più di tanto sull’asta odierna di Bot a 6 mesi, che ha visto collocati tutti e 8 miliardi di euro massimi previsti (sia pure con un rialzo, come da attese, dei tassi dallo 0,538% segnato il mese scorso all’1,1052%) con uno sprad Btp-Bund sui 10 anni che si mantiene stabile attorno al 3%, ma che ha portato il Tesoro a precisare in una nota che non esiste alcun pericolo per i conti dello stato. In particolare, spiega la nota, la Corte dei Conti nel mese di marzo 2013, tramite la Guardia di Finanza, ha chiesto la documentazione inerente alla sola attività di chiusura di un gruppo consistente di operazioni con Morgan Stanley.

A fronte di tale richiesta, il Tesoro ha fornito tutta la documentazione richiesta, secondo tempi concordati con la Guardia di Finanza stessa, per ciascuna operazione, inclusi i contratti pregressi dai quali ciascuna operazione ha avuto origine”. Siamo onesti: i media italiani (e purtroppo gran parte dei loro lettori) non capiscono un’acca di derivati, strumenti finanziari complessi che chi scrive ha adoperato in passato, in qualità di gestore patrimoniale, con grandissima cautela e all’interno di precisi limiti contrattuali di ciascun fondo o gestione patrimoniale, ma la polemica rischia di divampare come lo scorso anno quando il Tesoro decise di ristrutturare alcune delle operazioni in corso. Eppure, come nota il Tesoro, la filosofia di fondo dell’operatività in derivati della Repubblica, si dovrebbe basare (e secondo Via XX Settembre si basa concretamente) “su criteri ispirati al perseguimento dell’interesse dello Stato, mirando alla protezione dai rischi di mercato, primi fra tutti il rischio di cambio e il rischio di tasso di interesse”.

Con riferimento in particolare a quest’ultimo, l’attività in derivati negli ultimi anni “è stata mirata a conseguire l’allungamento della duration complessiva del debito, al fine di proteggere da un eventuale rialzo dei tassi, pagando tasso fisso e ricevendo variabile”, attività che “rappresenta una protezione verso futuri shock sui tassi di interesse”. Varrebbe la pena di ricordare, prima di ergersi a giudici della qualità dell'operatore del Tesoro, che prima dell'euro (nonostante quel che raccontano i suoi detrattori) i tassi sui titoli di stato italiani, anche a breve termine, erano a livelli multipli di quelli odierni e dunque i timori di eventuali rialzi erano consistenti, visti episodi precedenti come la crisi del 1992. Come ogni assicurazione, peraltro, sottolinea il Tesoro, “ove l’evento verso il quale ci si protegge non si verifichi, si sopporta un costo, che rimane tuttavia giustificato dalla priorità attribuita alla prevenzione di gravi conseguenze in caso di scenari avversi” il che è poi quello che è effettivamente successo (per fortuna nostra). “Il valore di mercato degli strumenti derivati in uno specifico momento, il cosiddetto “mark to market”, non è in nessun caso assimilabile a una perdita realizzata. Esclusivamente in presenza di specifiche clausole le controparti possono reciprocamente esigerne la corresponsione secondo le modalità previste nei contratti” aggiunge il Tesoro.

E se la nota pone infine l’accento sul fatto che siaassolutamente priva di ogni fondamento l’ipotesi che la Repubblica Italiana abbia utilizzato i derivati alla fine degli anni Novanta per creare le condizioni richieste per l’entrata nell’euro” (che, come detto, dobbiamo benedire visto il consistente sconto in termini di interessi sui titoli di stato che l'Italia ha ottenuto), visto che “le operazioni poste in essere all’epoca sono state sempre registrate correttamente secondo una prassi consolidata, nel rispetto dei principi contabili sia nazionali che europei” e che “i controlli effettuati sistematicamente dall’Eurostat a far tempo dalla seconda metà degli anni Novanta, anche quelli conseguenti all’introduzione in più fasi di nuove linee guida sugli strumenti finanziari derivati, hanno sempre confermato la regolarità della contabilizzazione di queste operazioni”, io vorrei far notare che creare dubbi e confusione sull’operato del Tesoro (e quindi di Draghi, all’epoca ai suoi vertici) rischia di produrre più danni che benefici.

Almeno per l’Italia, che ancora una volta in assenza di una efficace azione riformista del governo, sia in ambito nazionale sia europeo, deve sperare che almeno le protezioni messe in campo da Draghi per “comprare tempo” (per Roma e non solo) non cedano sotto i colpi dell’incertezza. O il problema degli italiani non sarà capire se aumenterà o meno  l’Iva o sarà incrementato l’acconto Irpef per rinviare il rialzo dell’aliquota dal 21% al 22% a dopo l’estate. In attesa che arrivi, "magicamente" la tanto invocata ripresa in grado di risolvere d'un tratto tutti i problemi che la Repubblica Italiana ha accumulato in oltre 60 anni di vita e quasi altrettanti di malgoverno.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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