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2015, fuga dalle banche: come la fintech cambierà il credito

Il 2014 in America (ma in parte anche in Europa) è stato l’anno del boom degli investimenti nella “fintech” (tecnologie applicate alla finanza). E’ una rivoluzione che può rilanciare l’economia mondiale che l’Italia farebbe bene a non ostacolare…
A cura di Luca Spoldi
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Sapete qual è stato nel 2014 uno dei settori più “caldi” a Wall Street, sia in termini di performance sia di nuovi debutti azionari? La cosidetta “fintech” (ossia il settore delle tecnologie applicate alla finanza), un settore che ha raccolto solo quest’anno oltre 3 miliardi di dollari di nuovi capitali con matricole che hanno ottenuto risultati migliori previsto, come capitato con Lending Club (ultima arrivata, ai primi di dicembre),che ha raccolto 870 milioni di dollari, col titolo collocato a 15 dollari, per poi veder schizzare al rialzo le quotazioni (ieri il titolo ha chiuso la seduta, l’ultima dell’anno anche a New York, a 25,83 dollari, dopo aver toccato nella seduta del 17 dicembre un massimo storico di 27,98 dollari per azione).

Delle possibilità, anzi dell’inevitabilità del successo della rivoluzione tecnologica che sta investendo la finanza specialmente negli Usa (mercato su cui sono stati raccolti oltre 1,8 miliardi di dollari nel corso dell’anno) sono convinti in molti, a partire da un investitore e “startupper seriale” come Marc Andreessen, capitalista di ventura che ha cofinanziato negli anni aziende come Twitter, Facebook e AirBnB e che ora guida una società d’investimento con un capitale di 4,2 miliardi di dollari. Del resto, ha sottolineato lo stesso Andreessen in un’intervista a Bloomberg qualche giorno fa, “c’è la possibilità di ricostruire il sistema” finanziario dalle fondamenta, visto che in fondo “le transazioni finanziarie sono solo numeri” e non sono necessarie “100 mila persone ed uffici di lusso a Manhattan, con giganteschi data center pieni di mainframe anni Settanta per darvi la possibilità di eseguire pagamenti online”.

Siamo insomma di fronte, almeno in America, a quello che chiamo da anni la necessaria, acnhe se probabilmente, dolorosarivoluzione culturale” che mi auguro anche l’Italia possa in tempi non biblici abbracciare per far ripartire la propria economia innovandola dalle fondamenta senza chiudersi in una continua battaglia di retroguardia per la sola tutela dei “diritti acquisiti” (o “rendite di posizione”, a seconda di come preferiate chiamarle) di pensionati e lavoratori dipendenti del pubblico impiego (e in parte del settore privato), diritti acquisiti (o rendite di posizione) il cui costo viene al momento fatto pagare in gran parte a lavoratori autonomi, donne e giovani. Perché è necessaria una rivoluzione profonda, che come dice Andreessen, sfrutti il processo di separazione delle attività bancarie in atto in tutto il mondo occidentale.

Una separazione che apre “opportunità di arbitraggio regolamentare ad ogni passo del cammino: se le autorità intendono regolamentare le banche, allora avrete soggetti non bancari che nasceranno per fare le cose che le banche non potranno più fare. La regolamentazione del credito tende a produrre dei ritorni di fiamma, e di recente ciò ha significato che anche il consumo è sempre più disaggregato”. Chi si illude (anche e forse soprattutto in Italia, aggiungo io) che si possa rimanere ancorati o, peggio, ritornare al passato è destinato a scontrarsi con la realtà: “quando la gente inizia a fare le cose in un modo migliore, tende a non interessarsi più a come erano fatte prima” conclude Andreessen. Il discorso non fa una grinza in America ma non lo fa neppure in Europa dove, se ricordate, anche l’economista Carlo Alberto Carnevale Maffè alcuni giorni fa commentava come delle circa 6 mila banche esistenti al momento in Europa non saranno necessarie, una volta portata a termine l’unione bancaria europea, più di un 10% circa.

Lo sanno benissimo anche i nostri banchieri e i nostri politici, ma per i primi ridurre il numero dei sempre più onerosi e sempre meno redditizi sportelli fisici (resi obsoleti dalla possibilità crescente di effettuare transazioni online) e accorpare le insegne significa dover rinunciare a poltrone e potere, per i secondi dover gestire l’ennesima “emergenza lavoro” che inevitabilmente riguarderà nei prossimi anni alcune decine di migliaia di lavoratori del settore bancario anche se non soprattutto per quanto riguarda le posizioni di middle management (quadri e funzionari). Eppure, come dice Andreessen, una volta imparato a fare le cose in modo più semplice, efficiente e meno costoso, indietro non si torna pena l’espulsione dal mercato (eventualmente dopo “salvataggi” pubblici effettuati a spese dei contribuenti).

Finora gli investimenti, negli Usa, si sono concentrati sui pagamenti mobili (Square), sui pagamenti online (Stripe e la multinazionale olandese di nascita Adyen), sui mutui e più in generale sui prestiti “peer to peer” (Renrendai e la stessa Lending Club), ma anche in Europa qualcosa si è mosso con quasi 570 milioni di dollari investiti di cui oltre 345 milioni nella sola Gran Bretagna (sono londinesi sia Powa, che ha raccolto 80 milioni di dollari, sia Funding Circle, a cui sono andati 65 milioni). Il clima è estremamente favorevole all’innovazione, anche se c’è da attendersi una forte resistenza da parte dei colossi che tuttora dominano il settore creditizio mondiale.

Ma ormai la rivoluzione è partita e l’esempio di Lending Club, marketplace attraverso il quale gli utenti possono prestarsi tra loro fondi attraverso una serie di schemi di prestito a differenti scadenze a partire da un minimo di 25 dollari pagando solo una piccola commissione di intermediazione al gestore della piattaforma, è un chiaro indicatore di quanto il successo possa arridere ai nuovi arrivati. Dal 2007 (anno della sua fondazione) ad oggi Lending Club ha intermediato prestiti per 7 miliardi di dollari. Le formule di prestito più utilizzate, quelli a 3 e a 5 anni senza garanzie, registrano in media tassi d’interesse del 14% che persino in America rappresentano un tasso inferiore a quello che si pagherebbe utilizzando costantemente i plafon delle proprie carte di credito. Per Lending Club il giro d’affari è stato pari a 144 milioni di dollari nei primi tre mesi dell’anno e mentre quest’anno è previsto che il bilancio chiuda in perdita per gli investimenti effettuati per crescere ulteriormente, lo scorso anno la società era già riuscita a chiudere in utile.

Altri operatori, come Blockchain e Bitpay, continuano a sviluppare sistemi di pagamento anche attraverso l’utilizzo di cripto valute come i Bitcoin (i quali, peraltro, hanno visto ulteriormente sgonfiarsi la “bolla” speculativa che aveva raggiunto i massimi lo scorso anno, registrando un tracollo delle quotazioni superiore al 50% e risultando così il peggior investimento finanziari possibile nel 2014). La rivoluzione culturale e tecnologica nel settore del credito mondiale sta arrivando: è tempo che anche l’Italia apra le sue porte e faccia il possibile per non perdere questa occasione formidabile per il rilancio di un’intera economia. Incrociamo le dita.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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