Partiti in forte calo dopo la vittoria a sorpresa di Donald Trump (con almeno 276 voti dei grandi elettori, contro i 270 necessari e i 218 finiti a Hillery Clinton, che ha già telefonato a Trump per congratularsi con lui) nella corsa alla successione di Barack Obama alla Casa Bianca, per la quale alla vigilia tutti (sondaggisti, grandi media e mercati finanziari) sembravano credere si trattasse di una relativamente facile vittoria dell’ex first lady ed ex Segretario di Stato, a metà seduta le borse europee invertono parzialmente la rotta e provano a recuperare parzialmente terreno, grazie a indicazioni di un analogo recupero da parte dei future sugli indici di Wall Street, dopo una notte che aveva visto gli stessi future sospesi per eccesso di ribasso sul -5%.
Anche se il rosso resta l’unico colore a livello di indici generali, scorrendo tra le maggiori società quotate si notano primi rialzi importanti per gruppi della farmaceutica come Bayer, Fresenius e Sanofi (tutti tra i 3 e i 4 punti percentuali di guadagno), piuttosto che, sul listino di Milano, per Recordati, ma anche per Leonardo-Finmeccanica e Buzzi Unicem, oltre che Tenaris, mentre in Europa sale ING Groep. In parallelo Bbva, istituto spagnolo che realizza il 40% dei suoi profitti in Messico, crolla del 9,5%, mentre perdite superiori al 3% sono accusate da gruppi come Anheuser-Bush InBev, Bmw, Daimler, Engie, ma anche Enel, Iberdrola, Intesa Sanpaolo, Lvmh, Munich Re, Banco Santander, Telefonica, Unicredit e Volkswagen.
E’ tutta colpa dell’emotività “a caldo”? Non proprio: dagli uffici studi sono subito arrivati i primi commenti a quanto è accaduto, con l’elenco di chi è più direttamente esposto al mercato americano. Nel caso italiano, ad esempio, realizzano oltre il 30% del proprio risultato operativo lordo o delle vendite gruppi come Fiat Chrysler Automobiles (80% dell’Ebitda), Buzzi Unicem (68%), Autogrill (65%), Luxottica (60%), Cnh Industrial (55%), Ferrari (45%), piuttosto che Safilo (40%), Yoox Net a Porter, Interpump e Brembo (tutte attorno al 30%). Mentre altri grandi gruppi come Leonardo-Finmeccanica e Salini-Impregilo, oltre ad essere da tempo presenti, sperano che Trump mantenga le promesse di un’America “più forte” sia nel settore della difesa sia nelle infrastrutture.
Il problema è al momento proprio questo: mentre Hillary Clinton era ritenuta una “carta conosciuta”, Donald Trump resta una totale incognita e i mercati debbono ancora prendergli le misure, non potendosi basare sulle sue promesse elettorali in quanto del tutto in contraddizione l’una con le altre. Trump ha infatti promesso contemporaneamente meno deficit e una riduzione delle tasse, ma senza tagli alla spesa, relazioni migliori con la Cina ma anche maggiori dazi doganali sulle sue merci e servizi, muri verso il Messico ma anche una crescita delle importazioni di medicinali dall’estero per ridurre i costi della sanità.
Tutto molto “pop”, ma tutto molto irrealizzabile se non a patto di precise scelte che Trump ancora deve annunciare. A votare Trump secondo i primi dati, sono inoltre stati una pluralità di soggetti, non solo gli operai bianchi a cui la globalizzazione ha fatto perdere il lavoro o i cowboy texani fanaticamente religiosi quanto dei talebani afgani, ma dai piccoli artigiani del Sud alle donne laureate delle due coste. Una riprova, se ce ne fosse bisogno, del malessere tutto occidentale che da anni sta crescendo e che è figlio, paradossalmente, delle migliorate condizioni di vita dal secondo dopoguerra ad oggi che si sono accompagnate a un crescente ruolo dei singoli stati in ambito economico e sociale.
Questo ha finito col generare attese di un ulteriore incremento del proprio benessere da parte della popolazione fino a che crisi geopolitiche prima ed economiche poi non hanno bruscamente interrotto, nel primo decennio del nuovo secolo, il sogno. In tale condizione (aspettative elevate e crescita improvvisamente insufficiente a sostenerle) la globalizzazione, vuoi tramite esportazione di produzioni mature dai paesi sviluppati a quelli emergenti, vuoi attraverso la spinta dei migranti, ha portato un numero di persone sempre maggiore a spartirsi un reddito sostanzialmente stabile, tanto in Europa quanto negli Usa, con vantaggi per chi partiva da basi inferiori e oneri crescenti per chi partiva da basi più agiate.
La via d’uscita, che lo stesso Trump non potrà che imboccare al di là dei proclami elettorali e di qualche scelta più o meno “fortunata” per l’una o per l’altra azienda, per l’uno o per l’altro settore? Ridurre il gap di aspettative e aumentare la produttività, così da far ripartire il reddito. Per farlo occorre tuttavia tagliare la spesa, più che aumentarla, e ridurre la presenza dello stato nell’economia (ma anche nel sociale), liberando nuovamente quegli “animal spirit” che Trump è riuscito efficacemente a incarnare ma che più in generale spaventano la maggioranza degli elettori, soprattutto in Europa e in Italia.
La realtà non ha solitamente molto rispetto degli auspici e delle speranze che non abbiano concrete fondamenta, i mercati sono veloci a capirlo, i sistemi elettorali molto meno, sino a quando non generano “sorprese” come il 45esimo presidente Usa. Basterà per svegliare il resto dell’Occidente e in particolare l’Italia e i suoi leader politici? Dalla risposta dipenderà, tra l’altro, l’andamento di quei mercati finanziari sui quali, è il caso di ricordarlo, investono oltre agli “speculatori” anche milioni di piccoli risparmiatori attraverso fondi comuni, gestioni assicurative e fondi pensione.