Germania e Italia, nonostante le diffidenze e gli scontri che hanno contrassegnato la storia delle proprie relazioni, sono due paesi per molti versi simili. I tedeschi godono della fama di essere più attenti alle norme e alla qualità di ciò che producono, gli italiani di aver più fantasia, a volte anche nell’aggirare le norme. Ma casi come quelli di Volkswagen, che ha dovuto ammettere di aver truccato per anni i test anti inquinamento statunitensi ed ora rischia una multa miliardaria (il gruppo tedesco oggi ha visto il titolo crollare del 18% a Francoforte, portando ad oltre il 28% la perdita da inizio anno) dimostrano che al di là dell’apparenza la sostanza non è così dissimile in fondo.
Il colosso tedesco avrebbe istallato dal 2009 al 2015 su vari modelli di auto a marchio Audi e Volkswagen venduti negli Usa un software che inganna i sistemi di rilevazione degli ossidi di azoto, sostanze nocive presenti nei gas di scarico in particolare dei motori diesel. Le scuse e il rammarico per l’accaduto, già ufficialmente formulate, difficilmente serviranno a rabbonire le autorità statunitensi, che potrebbero comminare una sanzione complessiva fino a 18 miliardi di dollari, che nel caso sarebbero pari a una volta e mezza gli utili record dello scorso anno (11,7 miliardi di dollari, quasi 13,2 miliardi di dollari).
La vicenda ha avuto ripercussioni su tutti i titoli automobilistici quotati in borsa in Europa e si può ben capire perché: come ha sottolineato anche Innocenzo Cipolletta, presidente di Aifi, il rischio è “che si perda fiducia nell’industria”. Di certo le autorità americane a questo punto vogliono vederci chiaro e già la Environmental Protection Agency e funzionari dello stato della California (da tempo all’avanguardia in fatto di protezione ambientale) hanno annunciato nuovi test a tappeto sui modelli diesel per vedere se altri produttori hanno utilizzato software in grado di falsificare i dati sulle emissioni. Decisione analoga ha preso, forse anche per salvare la faccia, il ministro dei Trasporti tedesco.
I guai per Volkswagen e non solo potrebbero dunque non essere finiti qui. Poiché negli affari il detto “mors tua, vita mea” è più valido che mai, la vicenda potrebbe indirettamente fornire un prezioso assist a Sergio Marchionne, da tempo impegnato, finora senza alcun concreto risultato, in uno sforzo per convincere potenziali “fidanzati” a scegliere Fiat Chrysler Automobiles come promessa sposa così da iniziare ad affrontare il problema della sovraccapacità produttiva del settore.
Tra l’altro poche settimane fa anche General Motors, finora insensibile alle lusinghe di Marchionne, è incappata in un problema legato alla qualità dei propri prodotti (in particolare un maxi richiamo di autovetture a causa di alcuni blocchetti di interruttori difettosi, che ha comportato il pagamento di una penale di 900 milioni di dollari per chiudere ogni pendenza legale). Se le due vicende dovessero indebolire il management che attualmente guida i due pesi massimi del settore negli Usa e in Europa, gli italiani potrebbero tornare a proporsi con maggiore forza a uno dei due potenziali partner.
Secondo gli analisti, peraltro, una eventuale integrazione tra Fca e Volkswagen-Audi creerebbe meno problemi da un punto di vista industriale che non tra Fca e GM, ma rischierebbe di impantanarsi in maggiori ostacoli dal punto di vista delle autorità Antitrust oltre che in generale per quanto riguarda l’aspetto politico di tale operazione. Fondersi vorrebbe infatti dire non solo consolidare quote di mercato e fatturato sotto un unico soggetto, ma anche andare a chiudere nuovi stabilimenti e questo non piace certamente al governo italiano né a quello tedesco, che pochi giorni fa ha chiesto proprio ai propri produttori automobilistici di cercare di assumere quanti più immigrati possibile per agevolarne l’integrazione, visto l’aumentata pressione di profughi in arrivo dalla sponda Sud del Mediterraneo.
Quanto agli aspetti finanziari, GM capitalizza 48,65 miliardi di dollari (circa 51,33 miliardi di euro), Volkswagen è calata a 62,85, Fiat Chrysler Automobiles arriva a 16,43 miliardi: ceteris paribus, in caso di fusione con il gruppo americano ai soci di Fca potrebbe andare l’equivalente di circa un 25% del capitale della futura società, mentre nel caso di una fusione “mitteleuropea” si arriverebbe a malapena al 20%.
Chissà se e con chi Sergio Marchionne riuscirà a fidanzarsi e quale dote, in termini di tecnologie ma anche di costo del lavoro (negli Usa il gruppo ha appena sottoscritto un’intesa quadriennale con il sindacato Uaw che entrambe le parti hanno definito “ragionevole” e che dovrebbe consentire di innalzare solo gradualmente il costo del lavoro per l’azienda, mentre a inizio anno Volkswagen ha concesso un ritocco del 2,2% degli stipendi ai suoi dipendenti per il biennio 2015-201t6) e, inevitabilmente, di potenziali sinergie di costi (ossia di stabilimenti da chiudere)? La partita sembra destinata a entrare nel vivo il prossimo anno, sfruttando, si spera, una fase di ritrovata salute del mercato anche in Europa dopo anni di contrazione delle vendite che permetterebbe di smussare gli angoli delle trattative.