Il 10 maggio è la festa della mamma. La maggior parte di noi manderà un sms di auguri alla propria madre, un whatsapp a quelle un po’ più giovani, qualcuno prenderà un mazzo di fiori. E c’è chi pensa questa ricorrenza possa essere una buona ragione per una gita domenicale, in questo bel sole di maggio.
È una ricorrenza molto tranquilla, rispetto ad altre. La festa della donna l’8 marzo, per esempio, a molti di noi ricorda l’episodio della fabbrica Triangle a New York, in cui nel 1911 un incendio uccise le operaie che erano state chiuse a chiave dentro, di modo da aumentare la produzione (di camicie). Ogni volta che si pensa a quell’episodio, si finisce per riflettere su quanto è stato fatto, e quanto si dovrebbe fare, in merito di pari opportunità sul posto di lavoro.
Alla festa della mamma, invece, basta un sms o un mazzo di fiori. Tanto, si sa, le madri sono comprensive. Eppure non dovrebbe essere così. La festa della mamma, più di tutte, dovrebbe essere una festa per i diritti delle donne che in Italia decidono di avere figli. E che, i numeri in crescita lo confermano, sono ancora oggi costrette ad abbandonare il posto di lavoro, vengono licenziate, e quando lavorano sono pagate meno.
Il rapporto “Avere figli in Italia negli anni 2000” dell’Istat, presenta un quadro drammatico delle difficoltà per le madri in Italia. Difficoltà che, anziché diminuire, aumentano considerevolmente proprio in questi ultimi anni. Il 22.4 per cento delle madri che avevano un lavoro all’inizio della gravidanza, dichiara di non lavorare più al momento dell’intervista, ovvero a circa 2 anni dalla nascita del bambino. Questo dato, relativo alle stime più recenti nel 2012, è il più alto rispetto ai precedenti rapporti Istat. Nel 2005, infatti, era il 18 per cento, nel 2000 il 20 per cento. Il 33.2 per cento delle donne intervistate, invece, si dichiara non occupata in entrambi i momenti: prima e dopo la gravidanza.
Una recente stima di Confesercenti, inoltre, stima come ancora più svantaggiate le donne lavoratrici indipendenti: in Italia ha un impiego solo il 15.7 per cento delle imprenditrici e delle professioniste con un figlio. E per chi invece continua a lavorare? Secondo l’Istat, quasi una su due, il 42.8 per cento, dichiara di avere problemi nel conciliare il lavoro con gli impegni familiari.
Ma in che maniera queste donne perdono il lavoro? Si tratta di licenziamenti discriminatori, o sono le donne stesse ad abbandonare il posto per le troppe difficoltà? Entrambe le cose: il 52.5 per cento dichiara di essersi licenziata o di avere interrotto l’attività da libero professionista. Il 25 per cento, invece, è stato licenziato dai datori di lavoro. Per il 20 per cento si tratta della fine, e del mancato rinnovo di un contratto a tempo, o di consulenza (ed è facile immaginare la ragione). Il 3.6% è stato messo in mobilità, e cioè sempre licenziato.
Si diceva, su questi numeri pesano discriminazione, leggi e controlli che non tutelano adeguatamente. Giocano anche fattori culturali. Ma dal punto di vista del welfare, è interessante vedere come l’assistenza nella cura dei figli, ancora oggi, pesa più sui nonni che sugli asili nido. Delle madri che hanno avuto un figlio e continuano a lavorare, ben il 51.4 per cento lo affida ai nonni, mentre nel 37.8 per cento dei casi a un asilo nido, e nel 4.2% a baby sitter. Tra coloro che non si rivolgono agli asili nido la metà dichiara di non potersi permettere la retta, troppo cara, mentre l’11.8 per cento lamenta l’assenza di posti.
Da tempo associazioni, lavoratori e esperti lamentano l’emergenza degli asili nido in Italia. A Torino, ad esempio, sono tanti gli asili di recente privatizzati dalla giunta comunale, con aumenti delle rette importanti che hanno portato a numerose proteste. E questo accade in tutta Italia: un anno fa a Bologna si è tenuto un referndum cittadino sui finanziamenti agli asili privati, che ha scatenato un grande dibattito. Il 59% ha votato per gli asili pubblici. Insomma, esiste un buco nero attorno alla necessità di più asili nido, e meno cari, attorno a cui gioca una fetta importante dei diritti delle madri in Italia.
E questo, a sua volta, gioca un ruolo importante nella vita lavorativa, estremamente difficile, di ogni donna in questo paese. Lo scorso febbraio il calo dell’occupazione generale è stato principalmente dovuto al calo dell’occupazione femminile, diminuita in un mese di 42.000 unità, col tasso al 14 per cento mentre quello maschile rimane fermo all’11 per cento. C’è poi la questione del gap nei pagamenti, per cui facendo lo stesso lavoro una donna viene pagata meno. Prima della crisi il gap era del 5 per cento, e ora, anziché diminuire, è aumentato al 7 per cento.
Essere una madre e lavorare, oggi, in Italia, è praticamente impossibile. E chi ci riesce vive una vita d’inferno. Non è un caso, forse, che la natalità sia fortemente calata negli ultimi anni: nel 2013 l’anagrafe ha registrato 25.000 nascite in meno rispetto al 2012, e la tendenza rimane invariata. Dal 2008 ad oggi, ovvero dalla crisi economica in poi, sono 62.000 le nascite in meno nel paese.
Insomma, tante donne oggi decidono che non è il caso di diventare madri. É un fenomeno che sta accadendo in tutti i paesi dell’Unione Europea, e in tutti i paesi industrializzati. Ma è interessante vedere come i paesi in cui la natalità rimane ancora forte, come la Francia, l’Inghilterra, Svezia, siano i paesi dove il welfare è disegnato per aiutare le madri. Coi congedi di maternità e paternità, gli asili nido economici, le baby sitter pubbliche.
Molto può essere – deve essere fatto – in materia di welfare per permettere alle madri che oggi festeggiamo di poter vivere una vita normale, e senza la necessità di dover perdere il lavoro. Perché è una vergogna che ancora oggi debba funzionare così, è una vergogna che questi dati, anziché diminuire, aumentino. Ogni anno di più, una festa della mamma dopo l’altra.