Versamento del conferimento in una società di capitali
Al momento della costituzione della società i conferimenti in denaro non devono essere interamente versati alla società, inoltre posso esistere dei conferimenti ancora dovuti anche in caso di aumento di capitale.
E' possibile che l'obbligo del conferimento sorge quando la società è in bonis, ma che il pagamento venga richiesto quando la società è dichiarata fallita
In questa situazione si pongono una serie di domande; a) il giudice delegato può recuperare le sottoscrizioni non ancora effettuate; b) se la risposta è positiva, con quale mezzo è possibile recuperare il debito; c) se esiste una clausola arbitrale, come tale clausola è opponibile al fallimento.
L'art. 150 legge fallimentare e versamenti dei conferimenti originari o successivi ancora dovuti
L'art. 150 della legge fallimentare consente al giudice delegato in giungere ai soci limitatamente responsabili e ai precedenti titolari delle quote o delle azioni di eseguire i versamenti ancora dovuti, quantunque non sia scaduto il termine stabilito per il pagamento. Contro il decreto emesso a norma del primo comma può essere proposta opposizione ai sensi dell'articolo 645 del codice di procedura civile.
E' relativamente chiaro che il provvedimento emesso dal giudice delegato per recuperare i versamenti dovuti dai soci della fallita assume natura di decreto ingiuntivo come tale opponibile ai sensi dell’art. 645 cod. proc. civ.
Decreto ingiuntivo e clausola arbitrale
L'art. 34 del d.lgs. n. 5 del 2003 prevede che "gli atti costitutivi delle società possono, mediante clausole compromissorie, prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale".
Resta da chiedersi se la presenza di una clausola arbitrale impedisce l'emissione di un decreto ingiuntivo.
In linea generale, l'esistenza di una clausola compromissoria non esclude la competenza del giudice ordinario a emettere un decreto ingiuntivo (atteso che la disciplina del procedimento arbitrale non contempla l'emissione di provvedimenti inaudita altera parte), ma impone a quest'ultimo, in caso di successiva opposizione fondata sull'esistenza della detta clausola, di dichiarare la nullità del decreto opposto e di disporre contestualmente la remissione della controversia al giudizio degli arbitri (cfr. Cass. n. 8166-99, nonché in motivazione Cass. Sez. U n. 22433-18).
Fallimento della società e clausola arbitrale (art. 83 bis legge fallimentare)
L'art. 83 bis legge fallimentare stabilisce che se il contratto in cui è contenuta una clausola compromissoria è sciolto a norma delle disposizioni della presente sezione, il procedimento arbitrale pendente non può essere proseguito.
In sostanza, la clausola compromissoria segue sempre le sorti del contratto sostanziale a cui accede (e quindi anche del contratto di società), per modo che il curatore, se subentra in questo, ovvero e più propriamente se agisce in luogo del debitore facendo valere diritti e azioni a lui spettanti, subentra anche nella clausola compromissoria; mentre in caso contrario, vale a dire se si scioglie dal rapporto sostanziale, si scioglie anche dalla clausola.
Dalla formulazione dell'art. 83-bis legge fall. è possibile trarre che la convenzione di arbitrato sopravvive al fallimento.
Se il procedimento arbitrale pendente non può essere proseguito nel caso di scioglimento del contratto contenente la clausola compromissoria, è ovvio che la detta clausola conserva la sua efficacia ove il curatore subentri nel rapporto – ovvero, qui potrebbe dirsi, eserciti lui le azioni che sarebbero spettate alla società fallita in base al rapporto -, non essendo consentito a quest'ultimo recedere da singole clausole del contratto di cui chiede l'adempimento.
Una volta aperta la procedura fallimentare non occorre valutare se pende o meno il giudizio arbitrale, ma occorre valutare quale diritti esercita il curatore fallimentare.
Se il curatore agisce in luogo del fallito, la convenzione arbitrale è sicuramente a lui apponibile, mentre non lo è quando il curatore fa valere diritti o esercita azioni diverse da quelle che sarebbero spettate al fallito prima del fallimento, come le azioni che – si dice comunemente – dal fallimento derivano, e che quindi prima e indipendentemente dal fallimento non sono date.
Naturalmente, anche se l'accordo arbitrale è apponibile al curatore, non sono mai arbitrabili le pretese fatte valere da terzi verso l'amministrazione fallimentare, soggette al procedimento di verifica dello stato passivo. Ma laddove si discorra del lato attivo del rapporto, può affermarsi che solo per le azioni che derivano dal fallimento il curatore non è vincolato dalla clausola compromissoria preesistente alla sentenza dichiarativa; in tutti gli altri casi lo è, invece, a meno che non decida di sciogliersi dal contratto che la contiene; cosa che ovviamente neppure in astratto può prospettarsi laddove il curatore semplicemente eserciti contro il socio e in luogo della società i diritti in ordine all'esecuzione dei conferimenti.
Fallimento della società, clausola arbitrale e versamento del conferimento (iniziale o successivo) ancora dovuto dai soci (art. 83 bis legge fallimentare)
Altro elemento da valutare è se l'opposizione al decreto ingiuntivo del giudice delegato ex art. 150 legge fallimentare abbia ad oggetto, o meno, diritti relativi al rapporto sociale e, se, di coneguenza, la clausola arbitrale è opponibile al fallimento.
La controversia ex art. 150 legge fall. è deferibile in arbitrato societario, poiché essa è relativa al rapporto sociale. Infatti, tale controversia deriva dal contratto di società, solo in base a tale contratto il curatore può ottenere, agendo in luogo della società fallita, il titolo per imporre al socio il versamento di quanto ancora dovuto rispetto a una delibera di aumento del capitale.
Del resto, il conferimento iniziale (dovuto al momento della costituzione della società) e il conferimento dovuto in esecuzione di un aumento di capitale coincidono sul piano concettuale e su quello effettuale, come può desumersi dalla disciplina di cui agli artt. 2344 e 2466 cod. civ., comunemente ritenuta non relegabile al procedimento di costituzione della società – sia essa azionaria, sia essa a responsabilità limitata.
Inoltre, se è deferibile agli arbitri la controversia relativa alla delibera dell'aumento di capitale anche la controversia successiva tesa all'esecuzione del conferimento è deferibile agli arbitri
Una volta deliberato l'aumento di capitale, la posizione del socio si pone, rispetto ai connessi obblighi di versamento, come quella di un qualunque debitore. Cosicché l'interesse direttamente coinvolto nel processo non è superindividuale ma è proprio (e soltanto) quello patrimoniale della società creditrice e quello speculare del socio uti singulus.
Per quanto sia vero che ciò possa intercettare anche l'interesse di terzi estranei – come i terzi creditori interessati alla solidità patrimoniale della società (nel concreto peraltro fallita) – è certo che non codesto ulteriore interesse ma solo il primo, individuale e antitetico, del socio debitore in contrapposizione a quello della società (in luogo della quale agisce il curatore ai sensi dell'art. 150 legge fall.) fa parte dell'oggetto del processo di opposizione al decreto del giudice delegato.
In conclusione: (i) la controversia integrata dall'opposizione di cui all'art. 150 legge fall. è da annoverare tra quelle relative a diritti inerenti al rapporto sociale, perché inscindibilmente correlata alla partecipazione e tramite essa al rapporto in base al quale è stata assunta la deliberazione di aumento di capitale da parte della società in bonis; (ii) l'inerenza alla dimensione sociale organizzativa resta palesata dall'essere (stato) il diritto patrimoniale legato alla partecipazione sociale; (iii) anche in caso di sopravvenuto fallimento rileva la clausola compromissoria statutaria, e la controversia in ordine all'esecuzione dei conferimenti è da considerare relativa a diritti disponibili, siccome attinente al credito della società e al debito (individuale) del socio.
Cass., civ. sez. I, del 30 settembre 2019, n. 24444