Può capitare che il bene oggetto del contratto (vendita o locazione ecc.) sia viziato. Per vizio del bene si intende (quanto meno) un difetto del bene, per il quale il bene o è completamente inidoneo (per una serie di motivi anche diversi tra loro) all'uso a cui era destinato oppure il vizio ne diminuisce in modo apprezzabile il valore.
Il legislatore si fa carico di questi possibili vizi predispone delle norme specifiche per ogni tipo di contratto.
Nella compravendita l'art. 1490 cc prevede che il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all'uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore.
In presenza di vizi del bene il compratore ha due scelte: può chiedere la risoluzione del contratto oppure può chiedere la riduzione del prezzo, (l'alternativa tra risoluzione e adempimento non è espressamente presa in considerazione dal legislatore, ma non si può escludere) si tratta di una scelta lasciata alla discrezionalità del compratore del bene viziato (infatti, l'art. 1492 cc prevede che nei casi indicati dall'articolo 1490 il compratore può domandare a sua scelta la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo).
La scelta dell'acquirente diventa irrevocabile, cioè non più modificabile, quando è fatta con la domanda giudiziale, in altri termini fino alla domanda giudiziale (fino, cioè, alla citazione) la scelta tra risoluzione e riduzione del prezzo è sempre modificabile.
Questo è un primo limite (direi limite finale) del potere discrezionale del compratore.
Altri limiti al potere discrezionale di scelta del compratore sono indicati sempre nell'art. 1492 c.c., il quale prevede che "Se la cosa consegnata è perita in conseguenza dei vizi, il compratore ha diritto alla risoluzione del contratto; se invece è perita per caso fortuito o per colpa del compratore, o se questi l'ha alienata o trasformata, egli non può domandare che la riduzione del prezzo"
Quindi, è possibile solo la risoluzione del contratto se la cosa è perita in conseguenza dei vizi, mentre è possibile solo la riduzione del prezzo se il bene (anche se viziato) è perito per caso fortuito (es. terremoto) o negligenza del compratore (incidente automobilistico) o se il bene viziato è stato alienato o trasformato.
Questi due ultimi eventi meritano un qualche ulteriore approfondimento. Infatti, l'alienazione del bene viziato (come la modifica o trasformazione del bene viziato) potrebbero tanto rappresentare
- l'accettazione del bene da aprte del compratore (cioè il compratore sa che il bene è viziato, decide di tenerlo, modificandolo o trasformandolo, materialmente, oppure, reimmettendolo nel mondo del commercio, trasferendolo a terzi);
- oppure i medesimi eventi (modifica, trasformazione o vendita del bene viziato) potrebbero essere del tutto estranei ad una qualsiasi volontà di accettare il bene, in quanto, ad esempio, il compratore solo durante la trasformazione del bene ha notato i vizi oppure solo dopo la ri-vendita del bene ha scoperto i vizi) del resto, la trasformazione della merce in seguito a lavorazione non può considerarsi sufficiente a dimostrare la volontà dell'acquirente di accettarla, nonostante la presenza di vizi e difetti rilevati in sede di lavorazione, quando, ad esempio, i vizi sono tempestivamente denunciati.
In altri termini, la stessa operazione concreta (alienazione o trasformazione) potrebbe tanto rappresentare l'accettazione del bene viziato, quanto essere completamente svincolata autonoma ed indipendente da qualsiasi accettazione del bene viziato. Risulta evidente che impedire la risoluzione del contratto in quest'ultima ipotesi sarebbe illogico. Dall'altro lato, però il venditore si troverebbe, in una situazione in cui l'acquirente utilizza, lavora il bene, si disfa della bene oggetto del contratto di vendita e, poi, domanda la risoluzione del contratto.
Che le due ipotesi siano diverse non ci sono dubbi e, certo, non è possibile unificarle (regolandole nello stesso modo) sostenendo che in entrambe è impossibile la restituzione del bene, quindi, è impossibile (per entrambe) la risoluzione del contratto.
In quanto, la natio della preclusione prevista dal citato art. 1492 cod. civ., nell'ambito della disciplina degli effetti della garanzia per i vizi della cosa venduta, non risiede nella impossibilità della restituzione della merce, (che è un posterius della pronuncia di risoluzione del contratto), bensì nel significato che l'utilizzazione della cosa acquistata può rivestire ai fini della conservazione del contratto, se ed in quanto dal comportamento del compratore emergano chiaramente la consapevolezza dell'esistenza dei vizi della cosa venduta e la volontà di accettarla. In questo caso, infatti, residua l'utilità del contratto e l'equilibrio tra i contraenti è assicurato dall'azione di riduzione del prezzo.
Quindi, l'alienazione o la trasformazione della cosa viziata, di per sé, non è sufficiente a precludere al compratore l'azione di risoluzione del contratto per vizi della cosa venduta perché la regola dettata dall'art. 1492, terzo comma, ultima parte, cod. civ. – che esclude la possibilità di chiedere la risoluzione nei casi di alienazione e di trasformazione della cosa – deve esser ricondotta non all'impossibilità di ripristino della situazione in cui le parti si trovavano al momento della conclusione del contratto, ma alla volontà dell'acquirente di accettare la cosa nonostante la presenza del vizio, e tale accertamento è rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, non censurabile in cassazione, se logicamente e congruamente motivato.
Cass., civ. sez. II, del 5 ottobre 2015, n. 19870 in pdf