Risarcimento del danno
Principio generale in materia di risarcimento del danno è quello per il quale colui che provoca un danno ad un altro soggetto è tenuto al risarcimento del danno.
In realtà anche il risarcimento del danno presenta notevoli complicazioni, che possono partire dalle modalità di ripartizione del danno, infatti, può accadere, che il medesimo soggetto sia contemporaneamente una parte danneggiante e parte danneggiata oppure possono riguardare l'eventuale regresso in presenza di una pluralità di danneggianti .
Il risarcimento può riguardare direttamente il danno subito dal bene danneggiato, come può riguardare l'aspetto morale o non patrimoniale.
Questo principio nella generalità delle ipotesi si applica al rapporto diretto tra due soggetti: danneggiato e danneggiante, basta pensare al risarcimento del danno per un incidente stradale oppure al risarcimento del danno per infiltrazioni (che potrebbe consistere nel mancato uso del bene e nel danno materiale al bene stesso).
Risarcimento del danno per le conseguenze indirette del danno
Sicuramente, il risarcimento del danno comprende le conseguenze dirette ed evidenti derivanti dall'evento dannoso, questo, però, non esclude che il risarcimento del danno comprenda anche tutti gli eventi dannosi che derivano indirettamente dall'evento dannoso, per rendere più concreta la fattispecie si potrebbe pensare al danno derivante dalla sofferenza (o preoccupazione) che un genitore prova in seguito all'incidente stradale in cui è coinvolto il figlio e a tutte le cure mediche che dovrà subire il figlio danneggiato nell'incidente stradale.
Sul punto relativo all'esistenza di un tale tipo di danno (lamentato da un soggetto diverso dal danneggiato materiale) si è espressamente stabilito che la sofferenza patita dal prossimo congiunto di persona ferita costituisce un danno non patrimoniale risarcibile dal soggetto che subisce la sofferenza (anche se non direttamente coinvolto nel sinistro).
Prova del danno provocato dalla sofferenza per la malattia di un proprio parente
Resta da chiedersi come può essere provato un danno derivante dalla sofferenza per vedere un proprio figlio malato.
Un pregiudizio di questo tipo, consistendo in un moto dell'animo, ben difficilmente potrà essere provato in concreto con le prove c.d. storiche, per l'ovvia ragione che solo in interiore homine habitat veritas. L'esistenza del danno in esame, pertanto, di norma non potrà che avvenire con ricorso alle c.d. prove critiche, prima fra tutte la prova presuntiva (art. 2727 c.c.).
Il ricorso alla prova presuntiva per dimostrare l'esistenza d'un danno non patrimoniale consistito nella sofferenza interiore non può certo ridursi ad un acritico automatismo, per cui provata l'esistenza della lesione personale, se ne debba inferire automaticamente l'esistenza d'un danno morale in capo ai prossimi congiunti della vittima primaria.
Tuttavia, se da un lato la prova presuntiva non può essere automatica, è altresì vero che essa può essere cercata anche d'ufficio, una volta che la parte abbia dedotto e provato i fatti noti che ne possono costituire il fondamento.
La prova presuntiva, infatti, consiste in un ragionamento logico-deduttivo che, sulla base di fatti noti, consente di risalire a fatti ignorati.
Pertanto, quando i fatti noti siano ritualmente entrati nel materiale utilizzabile ai fini della decisione, quel ragionamento il giudice deve comunque farlo: vuoi per trarne la prova che cerca; vuoi per concludere che i fatti noti di cui dispone sono privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, e non consentono di risalire al fatto ignorato.
Nel caso oggi in esame, nel corso del giudizio di merito non erano in contestazione, ovvero erano state debitamente provate, le seguenti circostanze:
– che la vittima fosse minorenne;
– che la vittima fu ricoverata in ospedale;
– che la vittima patì lesioni non lievi;
– che la vittima patì un periodo di invalidità temporanea assoluta di oltre quattro mesi;
– che la vittima conviveva col padre.
Tali circostanze costituiscono altrettanti "fatti", ovviamente decisivi, che il giudice di merito non ha preso in considerazione, per trarne le debite conclusioni ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., circa la sussistenza del danno lamentato.
La gravità delle lesioni patite dal minore, ed il rapporto di parentela tra questi e il padre, costituivano infatti elementi (probabilmente gli unici elementi) dai quali desumere secondo l'id quod plerumque accidit la circostanza che il padre della vittima si mise in allarme per la salute del figlio.
Cass. civ. sez. III del 11 luglio 2017 n. 17058