Luci ed ombre dei nuovi reati ambientali
Questo articolo è a cura del Dott. Francesco Marangolo, laureato in giurisprudenza Federico II, con tesi in procedura penale "la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello". In Italia, l'interesse prevalente è diretto all'ambito penalistico, a Londra collabora con studi anglo italiani e si occupa dei rapporti dei clienti Italiani con la pubblica amministrazione Inglese
Alla luce di quanto avvenuto nelle ultime settimane – l’esito referendario, con il mancato raggiungimento del quorum, e l’incidente di un oleodotto in Liguria – viene in rilievo la necessità di analizzare la nuova disciplina in materia ambientale; si tratta, difatti, di un complesso di norme che, oltre ad aver innovato il codice penale – con l’introduzione di cinque nuove fattispecie criminose, e tredici nuovi articoli – ha, di fatto, istituito la responsabilità penale in materia ambientale, se si escludono ipotesi di contravvenzioni previste nel T.U.A.
Prima della L. N. 68 del 2015, gran parte delle condotte individuate come rilevanti dal punto di vista penale venivano – spesso con notevoli balzi ermeneutici – forzate all’interno dell’art. 434 codice penale, il quale recita: “Chiunque, fuori dai casi preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro è punito, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità, con la reclusione da uno a cinque anni. La pena è della reclusione da tre a dodici anni se il crollo o il disastro avviene”.
La norma in questione, oltre ad avere una portata molto generale, è stata prevista in origine, come evidente dal dettato normativo, per condotte differenti, e non propriamente per la questione ambientale; la stessa, del resto, non è accompagnata da un profilo sanzionatorio adeguato, tenuto conto, anzitutto, di quanto i delitti ambientali debbano prevedere delle sanzioni adeguate – anche, se non soprattutto, accessorie – per le persone giuridiche (oltre che per gli organi delle stesse). Cosa che la nuova normativa in effetti fa.
Si tenga altresì conto che, la suddetta fattispecie, non permetteva di includere tutte quelle ipotesi in cui la condotta criminosa generi dei danni ambientali dilatati nel tempo, e non immediati. Fu la stessa Corte Costituzionale (sent. 327/2008) a sottolineare la necessità di un intervento del legislatore, in modo da prevedere una fattispecie autosufficiente in relazione al c.d. “disastro innominato” (ovvero il neonato “disastro ambientale”).
Questa inadeguatezza è del resto venuta drammaticamente in rilievo recentemente con la pronuncia della Cassazione, Sezione Prima, n. 7941/2015 (nel c.d. caso Eternit), che ha confermato i dubbi della Consulta – e della dottrina – in merito ad una inidoneità tanto del codice nella sua formulazione originale (il suddetto art. 434 c.p.) quanto degli ultimi interventi (d.lgs n.152/2006 e d.lgs 121/2011 in ratifica della direttiva CE 2008/99).
Oltretutto, la sussistenza del solo art. 434 c.p. avrebbe – ed in concreto ha – provocato gravissimi problemi in punto di effettiva punibilità; la decorrenza dei termini di prescrizione, difatti, non si sarebbe ricollegata al danno (nella peggiore delle ipotesi: la morte di uno o più soggetti), bensì alla conclusione della condotta pericolosa (ad esempio, la chiusura dell’impianto), o comunque, se si guarda ad altri orientamenti, un dies a quo incerto.
La normativa attuale, quindi, risolverebbe tutti i problemi sorti negli anni, si direbbe. Così, in realtà, non è.
Migliore della precedente, difatti, non equivale a buona normativa – ovvero un complesso di disposizioni che soddisfino le esigenze di tutela dei beni giuridici. Emblema dei problemi di questa normativa è la fattispecie che prevede il “disastro ambientale”.
In proposito, l’articolo 452 quarter recita: “Fuori dai casi previsti dall’art. 434, chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale è punito con la reclusione da cinque a quindici anni. Costituiscono disastro ambientale alternativamente:
- l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema;l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali;
- l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo.
Quando il disastro è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette, la pena è aumentata.
In primo luogo, la norma in questione crea tre fattispecie differenti: le prime due che presuppongono il danno ambientale ma prescindono dall’eventuale pericolo per l’incolumità pubblica; la terza ipotesi che, al contrario, è incentrata proprio sul pericolo che può derivare per l’incolumità pubblica.
Il principio di legalità imporrebbe oltre ad una tassatività della norma, anche la massima precisione nel descrivere la condotta, ed a questo proposito: cosa si intende per “rilevanza del fatto”? Che metro di valutazione dovrebbe adoperare il giudice per distinguere le ipotesi rilevanti da quelle che, al contrario non rientrano nell’ipotesi sub 3? A cosa ci si riferisce quando si parla di “effetti lesivi”? Alla lesione dell’ecosistema, dell’ambiente o delle persone?
Viene fatto un riferimento al “numero delle persone offese”: qual è il numero delle persone che devono aver subito lesioni (sempre che gli “effetti lesivi” siano a loro riferiti) affinché si configuri la fattispecie? Senza tener conto del riferimento alle “persone offese”, in luogo di un ben più idoneo “persone danneggiate”.
Altro punto discutibile è senz’altro la scelta di introdurre una clausola di sussidiarietà. La previsione iniziale “Fuori dai casi previsti dall’art. 434…”, comporta un’applicazione in via sussidiaria dell’art. 452 quarter. La scelta di prevedere tale clausola, è stata motivata con il timore che un eventuale mancato richiamo avrebbe potuto suggerire una “abolitio criminis”, per successione di legge penale, con gravissime ripercussioni sui processi in corso.
Questo timore è ovviamente del tutto ingiustificato, al più, la nuova norma allarga ad altre condotte, precedentemente non individuate come penalmente rilevanti, non coperte dall’art. 434 codice penale. La previsione di tale clausola ha, al contrario, una conseguenza negativa: se la fattispecie concreta presenta sia la condotta che comporti comprosimissone ambientale sia il pericolo per l’incolumità pubblica, questa rientrerà nell’ipotesi ex art. 434 – che prevede da 3 a 12 anni, da 1 a 5 in caso di colpa ma non di evento – e non dell’art. 452 quarter – che prevede pene edittali più severe, dai 5 ai 15 anni.
Meno grave – ma non priva di profili problematici – l’ipotesi prevista dall’art. 452 bis, che va a configurare il delitto di “inquinamento ambientale”. In tal caso il legislatore ha senz’altro accolto le richieste provenienti da più parti di introdurre una fattispecie che andasse a sanzionare tutta una serie di condotte assolutamente dannose (fino a quel momento ricomprese in fattispecie contravvenzionali o, addirittura, sanzionate solo sul piano amministrativo); in questo, la genericità della norma se da un lato può costituire problemi all’interprete che dovrà andare a riempire di significato termini come “significativo e misurabile”, dall’altro permette di allargare lo spettro della norma a condotte tra loro eterogenee.
Problematica, al contrario, sembra la distinzione tra “ecosistema” e “delle acque o dell’aria, o di porzione estese o significative del suolo o del sottosuolo”, suggerendo una distinzione, senza però alcun riferimento a come qualificare tale “ecosistema”. Problema che, come ovvio, si ripropone anche nella norma precedentemente analizzata, ovvero quella sul “disastro ambientale”.
Dott. Francesco Marangolo