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Le imposizioni dell’Europa e dell’Euro

I vincoli Europei e la crisi economica, la crisi dipende direttamente dall’Europa ? oppure i vincoli Europei sono solo un ulteriore elemento che aggravano la crisi economica ?
A cura di Redazione Diritto
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Questo articolo è a cura dell’Avvocato Giuseppe Palma del Foro  di Brindisi. Appassionato di storia e di diritto, ha sinora  pubblicato  numerose  opere di saggistica a carattere storico – giuridico. 

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Le imposizioni dell’Europa e dell’Euro.  Soluzioni alla crisi economica e viaggio breve nel tessuto dell’Eurocrazia. Un nuovo Ancien Régime europeo ?

Quanta speranza negli occhi di noi ragazzi del 78’ che, nel settembre del 1992, iniziavamo il primo anno di scuola superiore! Quanta speranza nelle parole Europa e Popoli! Quanti pomeriggi sottratti ai giri in motorino per partecipare ai progetti scolastici europei!

Ma oggi, trascorsi poco più di vent’anni dal Trattato di Maastricht, quella speranza si è trasformata in un giogo d’acciaio posto attorno al collo della libertà!

I parametri che qualche politico nostrano (fin troppo consapevole) ha accettato di sottoscrivere perché il nostro Paese facesse parte sin da subito di un progetto europeo senza testa e con tante code, rappresentano oggi la condanna a morte dell’Italia – il Paese più bello del mondo -, ridotto dai ciechi ed ipocriti “Europeisti a tutti i costi” a svendere le proprie meraviglie e i frutti di una vita alle multinazionali straniere! Penso agli italiani del nord nati prima della fine della guerra, che con appena la quinta elementare hanno creato dal nulla – con la sola meravigliosa forza della fantasia – officine e piccole botteghe familiari successivamente trasformatesi in fabbriche vere e proprie, spina dorsale di un intero Paese che hanno dato lavoro a milioni di persone! Penso ai contadini del sud nati nei primi decenni del Secolo scorso, che con appena la seconda elementare (chi aveva la quinta era considerato un “uomo di lettere”) facevano sacrifici indicibili per mandare i propri figli più capaci all’Università: in quel modo avrebbero evitato a questi una vita di stenti come quella che avevano fatto loro… ma all’epoca la laurea valeva molto! Un laureato – oltre a godere del rispetto dell’intera comunità – un lavoro dignitoso lo trovava comunque! E questo i contadini lo sapevano bene… quella era la loro Repubblica!

Poi sono arrivati i “dottorini”, i “professoroni”, gli “europeisti” e i “tecnici”, quelli che hanno tre lauree, cinque Master, che insegnano all’Università, che sanno l’inglese alla perfezione e che hanno fatto esperienza all’estero, i quali ci hanno convinto che un’unione monetaria – accompagnata da graduali cessioni di sovranità da parte degli Stati membri in favore degli organismi comunitari – ci avrebbe fatto diventare più ricchi e che la povertà nel Vecchio Continente sarebbe stata definitivamente debellata, che saremmo stati tutti insieme come in una sorta di Paradiso economico eterno!

E se qualche scettico si opponeva a questo progetto di unificazione, ecco pronti gli ipocriti e gli assoldati a reagire con la solita arma: la denigrazione morale, culturale ed intellettuale di coloro che la pensano diversamente! Ricordo che, fino a pochissimo tempo fa, chi si permetteva di mettere in discussione sia l’euro che l’Unione Europea veniva immediatamente additato come un “fascista” ignorante, come un soggetto pericoloso addirittura per la democrazia!

Poi è iniziata la più grande crisi economica degli ultimi ottant’anni, e tutti i limiti del progetto europeo sono venuti alla luce! Ciononostante, ancora oggi, quegli stessi ipocriti che appartengono all’Intellighenzia europeista continuano a ghettizzare culturalmente chi critica questa Europa e questo euro così come finora concepiti!

Ma come siamo arrivati a questo punto? Partiamo dall’inizio.

Recita l’art. 11 della Costituzione:L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. La chiave di lettura è nella parte della disposizione costituzionale che dice: “[…] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. L’Unione Europea trova pertanto il proprio fondamento giuridico (per quanto riguarda ovviamente la posizione del nostro Paese) in quest’ultimo frammento della disposizione costituzionale di cui all’art. 11, ma, come il lettore potrà rendersi conto, tali limitazioni alla sovranità nazionale sono fortemente circoscritte a due rigidi requisiti: 1) le condizioni di parità con gli altri Stati; 2) la necessità di assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni.

In merito alle condizioni di parità con gli altri Stati preferirei stendere un velo pietoso perché ogni commento sarebbe superfluo: quasi tutti i nostri Presidenti del Consiglio che si sono succeduti dal 1992 in poi, sono andati in Europa vestendo i panni del soldato Oreste Jacovacci ne La Grande Guerra di Mario Monicelli[1]. In merito, invece, alla necessità di assicurare pace e giustizia fra le Nazioni, è doveroso sottolineare che il progetto europeo ha garantito – per la prima volta nella Storia del Vecchio Continente – che in Europa non si spari più un solo colpo di fucile da circa settant’anni, tuttavia (come ho già evidenziato nella mia Lettera agli Italiani) le guerre del nuovo mondo si combattono “semplicemente” con l’arma del denaro, della finanza speculativa e dell’impoverimento! E i morti che ne derivano sono sullo stesso piano dei morti da bombardamento, anche se fanno meno clamore e sono maggiormente assorbibili dall’indignazione generale!

Nell’attuazione della disposizione costituzionale di cui all’art. 11 – inizialmente interpretata in favore di organizzazioni internazionali che avessero la mera finalità di garantire la pace e la giustizia fra le Nazioni e non per uno specifico progetto europeo, quindi,  solo successivamente servita quale trampolino di lancio della Comunità/Unione Europea – qualcosa, da un punto di vista strutturale, non ha funzionato.

E la responsabilità non è certo dei Padri Costituenti!

Gli  “Europeisti a tutti i costi”, sfruttando la loro sedicente credibilità internazionale (è facile essere credibili tra chi la pensa alla stessa maniera), hanno pertanto dato vita ad un’unione monetaria senza passare dalla necessaria unione politica, e ciò ha generato una falla mortale all’interno della struttura europea: se fino a qualche decennio fa ciascuno Stato nazionale – dotato della necessaria sovranità monetaria -, attraverso la facoltà di poter stampare nuova carta moneta e di non dover rispettare parametri forcaioli si faceva garante sia del debito pubblico sia delle condizioni sociali dei propri cittadini, dall’entrata in vigore della moneta unica qualcosa non ha più funzionato! La totale perdita di sovranità monetaria nazionale e quindi la mancata possibilità sia di stampare nuova carta moneta sia di sfruttare la leva della svalutazione monetaria nei periodi recessivi, abbinate alla tenaglia del parametro del 3% nel rapporto deficit-PIL,  hanno posto gli Stati nazionali con maggiori difficoltà nel dover fare i conti con una situazione insostenibile. Con il cocktail esplosivo rappresentato da debiti pubblici nazionali altissimi e una situazione recessiva pesantissima (il PIL di parecchi Paesi è sceso per più anni sotto lo zero), alcuni Stati – tra cui l’Italia -, non potendo sforare il tetto del 3% nel rapporto deficit-PIL (e non potendo né stampare nuova carta moneta né utilizzare la leva della svalutazione monetaria), si sono trovati costretti a non poter assumere decisioni choc per far ripartire l’economia reale (le quali avrebbero sicuramente avuto un costo notevole ma necessario) perché altrimenti si sarebbero sforati i parametri sopra citati.

E, come se ciò non fosse già di per sé sufficiente a rovinare una Nazione, il 2 marzo 2012 venticinque Stati dell’Unione Europea (compresa l’Italia e ad eccezione sia della Repubblica Ceca che – guarda caso – del Regno Unito, il cui ex Primo Ministro Margaret Thatcher aveva compreso già nel 1990 che l’unione monetaria sarebbe stata un disastro) hanno sottoscritto il cosiddetto Fiscal Compact (Patto di bilancio europeo o Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria), un Trattato internazionale folle e dannoso che prevede – tra le altre cose – l’obbligo per gli Stati firmatari di recepire nei propri ordinamenti nazionali i seguenti vincoli: 1) riduzione del rapporto fra debito pubblico e PIL al ritmo di un ventesimo all'anno (5%), fino al raggiungimento del rapporto del 60% sul PIL nell'arco di vent’anni; 2) obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio; 3) obbligo di non superamento della soglia di deficit strutturale superiore allo 0,5% del PIL (e superiore all'1% per i paesi con debito pubblico inferiore al 60% del PIL).

Tre misure che hanno condannato a morte soprattutto l’Italia! Ma i nostri politici (in quel caso “tecnici” e “professoroni”), riempiendosi la bocca con parole come credibilità e stabilità, sono stati tra i primi a firmare la condanna a morte dei loro cittadini. E con una rapidità quasi miracolosa (praticamente nell’arco di qualche settimana), il Parlamento italiano – sordo e schiavo – ha inserito in Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio (art. 81 Cost.). Nulla di più folle… che Dio li perdoni! Sempre in merito al Fiscal Compact, sul sito web dell’enciclopedia libera Wikipedia è riportata la seguente critica: «I premi Nobel per l'economia Kenneth Arrow, Peter Diamond, William Sharpe, Eric Maskin e Robert Solow, in un appello rivolto al Presidente Obama, hanno affermato che "Inserire nella Costituzione il vincolo di pareggio del bilancio rappresenterebbe una scelta politica estremamente improvvida. Aggiungere ulteriori restrizioni, quale un tetto rigido della spesa pubblica, non farebbe che peggiorare le cose"; soprattutto questo "avrebbe effetti perversi in caso di recessione. Nei momenti di difficoltà diminuisce infatti il gettito fiscale (per concomitante diminuzione del PIL) e aumentano alcune spese pubbliche tra cui i sussidi di disoccupazione. Questi ammortizzatori sociali fanno dunque aumentare il deficit pubblico, ma limitano la contrazione del reddito disponibile e quindi del potere di acquisto (che influiscono sul consumo o domanda di beni o servizi)". Nell'attuale fase dell'economia, continuano, "è pericoloso tentare di riportare il bilancio in pareggio troppo rapidamente. I grossi tagli di spesa e/o gli incrementi della pressione fiscale necessari per raggiungere questo scopo, danneggerebbero una ripresa economica già di per sé debole". Nell'appello si afferma che "anche nei periodi di espansione dell'economia, un tetto rigido di spesa potrebbe danneggiare la crescita economica, perché gli incrementi degli investimenti a elevata remunerazione – anche quelli interamente finanziati dall'aumento del gettito – sarebbero ritenuti incostituzionali se non controbilanciati da riduzioni della spesa di pari importo". Infine si afferma che "un tetto vincolante di spesa comporterebbe la necessità, in caso di spese di emergenza (per esempio in caso di disastri naturali), di tagliare altri capitoli del bilancio mettendo in pericolo il finanziamento dei programmi non di emergenza". Critico anche l'economista e premio Nobel Paul Krugman, il quale ritiene che l'inserimento in costituzione del vincolo di pareggio del bilancio possa portare alla dissoluzione dello stato sociale»[2].

Ma dov’erano i nostri politici e i nostri tecnici quando i Premi Nobel argomentavano così chiaramente le loro critiche contro gli scellerati vincoli che abbiamo visto sinora?

In una situazione di grave crisi economica come quella che ancora oggi attanaglia il nostro meraviglioso Paese, sarebbe invece stato necessario che l’Italia avesse assunto decisioni choc che mirassero a far ripartire l’economia reale, quindi il lavoro, i consumi delle famiglie e gli investimenti; e ciò è ancora possibile – a mio modesto parere – attraverso i seguenti strumenti:

A)               L’allentamento (con un accordo comune sottoscritto da tutti i Paesi dell’Unione Europea firmatari dei Trattati) della morsa dei parametri di Maastricht, prevedendo la possibilità per gli Stati che si trovino in maggiori difficoltà economiche e di finanza pubblica di sforare (anche ampiamente) l’attuale parametro deficit-PIL. E medesima necessità di allentamento si renderebbe inoltre necessaria anche in merito ai parametri forcaioli previsti dal Fiscal Compact, i quali, sempre a mio parere, andrebbero integralmente abrogati! Tuttavia, da un punto di vista giuridico – trattandosi di Trattati internazionali e quindi nel rispetto del principio pacta sunt servanda -, sarebbe altresì necessario l’accordo tra tutti gli Stati firmatari in deroga a quanto precedentemente stipulato. Tuttavia, è bene precisare che l’allentamento della morsa dei parametri come sopra specificato potrebbe realizzarsi anche senza passare necessariamente dalla modifica dei Trattati ma attraverso una deroga pro tempore concessa dall’Unione Europea agli Stati con maggiori ed evidenti difficoltà. Forse il lettore non lo sa, ma il tetto del 3% quale parametro del rapporto deficit/PIL trova la sua origine non su fondamenta economiche e/o matematiche (poteva infatti essere stabilito un tetto del 4, del 5 o del 7 per cento); il numero 3 pare sia stato indicato dall’ex Presidente della Repubblica francese François Mitterrand quale presunto riferimento – si dice – alla Trinità. Fosse vero, dovremmo preoccuparci un tantino di più! Con tutto il rispetto per la Trinità!

B)                La violazione dei Trattati internazionali, quindi lo sforamento non autorizzato del parametro deficit-PIL e il non rispetto dei vincoli stabiliti dal Fiscal Compact. Qualora si adottasse quest’ultima soluzione, ci sarebbero comunque pesanti sanzioni inflitte dai burocrati di Bruxelles ma, di fronte alla gravissima situazione come quella in cui versa attualmente l’Italia, meglio violare i patti che far morire la propria gente e le proprie eccellenze… Del resto, ed è bene sottolinearlo, nessuno potrà mai cacciare l’Italia dall’Unione Europea, in quanto: 1) l’Italia, oltre ad essere uno dei Paesi fondatori della Comunità Europea, è – nei suoi fondamentali – una delle più forti economie mondiali; 2) senza l’Italia verrebbe meno sia l’intero progetto di integrazione europea sia lo sviluppo del progetto medesimo. Sarebbe come fare la pasta alla carbonara senza uova e senza guanciale; 3) come potrebbe continuare ad esistere un’Europa senza Dante, senza Leonardo e senza Piero della Francesca? Ricordo inoltre al lettore che sia la Germania che la Francia, nei primi anni dello scorso decennio, sforarono arbitrariamente il parametro del 3% nel rapporto deficit/PIL senza che nessuno battesse ciglio (la Francia, ancora oggi, viaggia attorno al 4%). E, una volta sistematisi i loro problemi, si sono pure permessi di fare i “sorrisini”! Anche da questo punto di vista, e mi duole ricordarlo, l’Italia non ha avuto – e non ha – politici all’altezza di far pesare il ruolo del nostro Paese in ambito comunitario.

C)               Ridiscutere e riscrivere integralmente (tutti insieme e abbandonando le logiche egoistiche) il contenuto dei Trattati, iniziando dai parametri di Maastricht e dai vincoli fissati dal Fiscal Compact, stabilendo una soglia molto più alta del rapporto deficit-PIL[3] e cancellando i vincoli fissati dal Patto di bilancio europeo con l’eliminazione sia dell’obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio sia dell’obbligo di riduzione sistematica della spesa pubblica. Oltre a quanto premesso, sarebbe inoltre necessario: a) attribuire alla BCE la facoltà e l’autonomia decisionale (supportata eventualmente dall’impulso della politica) di stampare nuova carta moneta, attribuendo altresì alle Banche Centrali di ciascuno Stato (sotto il controllo dei Governi e dei Parlamenti nazionali) la vigilanza sugli Istituti di Credito affinché la maggiore liquidità a disposizione venga esclusivamente utilizzata nel credito a famiglie e imprese. L’immissione in circolo di nuova carta moneta causerebbe con ogni probabilità l’aumento dell’inflazione, ma comporterebbe anche una svalutazione competitiva dell’euro soprattutto nei confronti del dollaro con effetti positivi sulle esportazioni e sul PIL dei Paesi dell’Eurozona; b) attribuire alla BCE la facoltà e l’autonomia decisionale (anche in questo caso supportata eventualmente dalla spinta proveniente dalla politica) in merito alla concreta possibilità di acquistare – senza che ogni volta vi siano veti da parte degli Stati membri – i titoli di Stato delle Nazioni che versano in maggiori difficoltà economiche e di finanza pubblica, rendendosi in tal modo garante del debito pubblico dei predetti Stati, i quali, per effetto di tale intervento a garanzia da parte della Banca Centrale, impiegherebbero le proprie risorse non per pagare gli interessi sul debito ma per fare gli interessi del loro popolo e della loro economia reale (lavoro, tassazione etc…). E’ ovvio che tutto questo non può e non deve avvenire con criteri cravattari o attraverso sospensioni di democrazia, altrimenti non si risolve nulla; c) rimodulare i criteri di calcolo del rapporto deficit/PIL di ciascuno Stato, infatti dal predetto calcolo andrebbero esclusi alcuni capitoli di spesa come ad esempio quelli per far fronte alle calamità naturali e quelli per lo sviluppo e la tutela della cultura, del turismo, del paesaggio, dell’Arte e quindi per il recupero del tesoro artistico ed architettonico.

Con l’insieme di tali misure di cui al presente punto, ciascuno Stato nazionale – in un periodo di forte e grave crisi economica come quella attuale – potrebbe far leva sulla spesa pubblica al fine di intervenire direttamente nell’economia (concedendo ad esempio forti agevolazioni fiscali alle aziende che assumono a tempo indeterminato oppure ai giovani che vogliono aprire un’attività, ovvero prevedere la possibilità per imprese, professionisti e artigiani di detrarre integralmente tutte le spese sostenute senza eccezione alcuna, od anche ridurre drasticamente il cuneo fiscale e realizzare un piano di piena occupazione) e quindi far ripartire il lavoro, i consumi delle famiglie e gli investimenti, sconfiggendo di conseguenza le pesanti difficoltà che stanno massacrando il ceto medio.

Se si intende pertanto mantenere la moneta unica e continuare a tenere seriamente in piedi il progetto europeo, si rende necessario – ora più che mai – adottare la soluzione di cui alla lettera C) sinora brevemente argomentata. Con la predetta soluzione ciascuno Stato nazionale potrebbe porre in essere sia un progetto di sviluppo economico che un piano di piena occupazione che risolverebbero la gran parte delle problematiche economico-sociali, il tutto perché – potendo far leva sulla spesa pubblica (sia per via del fatto che non si rispetterebbero né i parametri di Maastricht né quelli del Fiscal Compact, sia perché vi sarebbe maggiore liquidità dovuta sia all’immissione in circolo di nuova carta moneta sia al fatto che la BCE si farebbe garante dei titoli di Stato delle Nazioni con maggiori difficoltà) -, ciascun Paese si troverebbe nelle condizioni di poter esercitare la sua funzionalità sussidiaria, propria dell’essere Stato. Togliendo invece allo Stato la possibilità di spendere, viene meno l’essenza stessa di essere Stato. Ecco dov’è il problema. Chi ha voluto l’euro così come lo è stato sinora, ha commesso errori gravissimi: abbiamo un’unica moneta per più Stati e una molteplicità di debiti pubblici tanti quanti sono gli Stati, e per di più l’Unione Europea ha una banca che di “centrale” ha solo il nome, infatti la BCE – così com’è – non può né decidere autonomamente di stampare nuova carta moneta né rendersi concretamente garante del debito pubblico di ciascuno Stato che ha aderito all’unione monetaria. Si è costruita una moneta unica per Paesi completamente diversi, con inflazione, debito pubblico, deficit e struttura produttiva totalmente differenti. Ciò comporterà inevitabilmente, prima o poi, l’implosione dell’euro! Di fronte a tale scenario, si rende necessario (prima che sia troppo tardi) riconsegnare lo scettro agli Stati nazionali oppure ridiscutere e riscrivere integralmente sia il contenuto dei Trattati sia l’intero impianto della moneta unica! Per dirla con parole più semplici, bisogna rifare tutto daccapo!

Inoltre, qualunque fosse la soluzione adottata per uscire dalla crisi economica, ritengo sia altresì indispensabile – in ogni caso – che l’Italia, al fine di far “girare” nuovamente la propria economia, provveda all’abrogazione sia degli strumenti troppo invasivi di accertamento fiscale che degli attuali limiti all’utilizzo e alla circolazione del denaro contante, misure vergognose introdotte in questi ultimi anni e che solo apparentemente servono a recuperare denaro dall’evasione fiscale ma che, nella sostanza, non fanno altro che devastare un’economia già a pezzi favorendo non solo una maggiore evasione, ma soprattutto una fuga della ricchezza verso mete più garantiste. Tra l’altro, ed è bene dirlo, quando lo Stato italiano cerca di recuperare denaro dall’evasione fiscale lo fa sempre martellando i “pesci piccoli” (commercianti, artigiani, professionisti e piccole-medio imprese) e lasciando stare gli “squali” (multinazionali, banche e grandi gruppi finanziari), generando in tal modo un’ulteriore e insopportabile ingiustizia!

Ma i politici nostrani, nonostante l’evidenza di quanto appena premesso, continuano a muoversi nell’orbita di proposte giacobine come ad esempio quella di ridurre ulteriormente l’utilizzo del contante (si vuole introdurre l’obbligatorietà delle transazioni elettroniche) e quella di inasprire maggiormente i sistemi di accertamento fiscale (Redditometro e Spesometro ne sono strumenti evidenti).

Tali misure hanno prodotto – e continueranno a produrre – il massacro di alcune categorie di lavoratori autonomi, oltre che l’inevitabile aumento dell’evasione fiscale (più lo Stato mi controlla ed assume nei miei confronti un atteggiamento inquisitore, più mi sento spinto a nascondere quanto ho guadagnato per paura di subire conseguenze di matrice giacobina) e l’emigrazione della ricchezza verso l’estero (più lo Stato vuole sapere quanti soldi ho e come li spendo, più sono invogliato a spendere o investire i miei soldi in Paesi più liberali e maggiormente garantisti).

Per concludere la parte riguardante la soluzione fin qui prospettata di ridiscutere e riscrivere integralmente i Trattati, bisogna ammettere che l’attuazione di tutte le predette misure di cui al presente punto avrebbe probabilmente un’incidenza considerevole sia sulla spesa pubblica che sull’inflazione, ma gli effetti positivi sarebbero sicuramente maggiori: 1) ripresa dell’occupazione e, di conseguenza, dei consumi delle famiglie, degli investimenti e del PIL; 2) aumento delle entrate per le casse dello Stato quale diretta conseguenza della riduzione delle tasse e dell’abrogazione sia degli strumenti troppo invasivi di accertamento fiscale che del tetto previsto per l’utilizzo e la circolazione del denaro contante; 3) maggiore fiducia nel futuro e voglia di investire; 4) diminuzione della spesa pubblica per gli ammortizzatori sociali.

D)               Abbandonare la moneta unica e riappropriarsi della sovranità monetaria nazionale: quest’ultima soluzione (forse la più rischiosa di tutte ma che diverrebbe indispensabile di fronte alla continua e colpevole indifferenza dei tecnocrati di Bruxelles e dell’intero apparato eurocratico) produrrebbe molto probabilmente una svalutazione della moneta nazionale che si calcola attorno al 20-30% circa, ma sortirebbe tuttavia alcuni importanti effetti positivi come ad esempio quello che lo Stato, riappropriandosi della sovranità monetaria e “libero” di non osservare i parametri di Maastricht e del Fiscal Compact (benché tale libertà costituirebbe violazione dei Trattati internazionali), assumerebbe su se stesso sia la responsabilità di garantire il debito pubblico (garanzia del tutto sicura in quanto, essendo lo Stato stesso produttore di moneta, non potrebbe non onorare i propri debiti), sia la responsabilità di prendere decisioni choc di carattere economico-fiscale tali da far ripartire il lavoro, quindi i consumi e gli investimenti (sostanzialmente l’economia reale). Inoltre, attraverso un ritorno alla sovranità monetaria nazionale, si potrebbe pianificare e realizzare un piano di piena occupazione – accompagnato dalla necessaria riduzione delle tasse e dall’abrogazione sia degli strumenti troppo invasivi di accertamento fiscale che dei limiti all’utilizzo del denaro contante – che produrrebbe l’effetto di “far girare” l’economia reale con una ripresa dei consumi e degli investimenti delle famiglie, oltre che una maggiore fiducia nel futuro. Quanto premesso causerebbe, sì, un significativo aumento della spesa pubblica (e del debito pubblico), ma ciò non deve affatto allarmare! Di fronte ad un debito pubblico molto alto (il rapporto debito pubblico/PIL del Giappone è addirittura del 236%, mentre quello italiano è “appena” del 133%) ma con una totale sovranità monetaria (quindi potendo sfruttare sia la facoltà di poter stampare nuova carta moneta sia la leva della svalutazione monetaria) e con la realizzazione sia di un progetto di piena occupazione che di un piano di riduzione delle tasse, si raggiungerebbero di conseguenza obiettivi fondamentali, quali ad esempio: 1) ripresa dei consumi delle famiglie e degli investimenti; 2) aumento delle esportazioni grazie alla diminuzione dei prezzi (e ciò comporterebbe un aumento delle vendite e della produzione da parte delle aziende italiane che – di conseguenza – assumerebbero più personale oppure non licenzierebbero i collaboratori precedentemente assunti ovvero non sarebbero costrette a ridurre i salari o le ore di lavoro ); 3) crescita del PIL sia per effetto dell’aumento del numero di coloro che percepiscono un reddito che per effetto dell’aumento della spesa pubblica e degli investimenti; 4) maggiori introiti fiscali per le casse dello Stato dovuto all’abbassamento della tassazione (meno si paga e più soggetti pagano) e all’abrogazione sia degli strumenti eccessivamente invasivi di accertamento fiscale che del tetto attualmente previsto per l’utilizzo del denaro contante (meno lo Stato mi controlla e più sono incentivato a spendere ed investire i miei soldi in Italia, pagando di conseguenza le tasse); 5) consistente diminuzione della spesa pubblica per gli ammortizzatori sociali; 6) maggiore fiducia ad investire i capitali in Italia e quindi una minore delocalizzazione.

Il tutto, come si è visto, con effetti molto positivi sull’economia reale e senza alcun problema di default, anzi, tutt’altro! È tuttavia importante ammettere che, affinché le misure sopra individuate producano gli effetti sperati, sarebbe altresì indispensabile – almeno per quel che riguarda il nostro Paese – procedere ad una serie di riforme strutturali come ad esempio quella della Parte Seconda della Costituzione (che superi quanto meno il bicameralismo perfetto e quindi produca effetti apprezzabili sulla celerità delle decisioni della Politica) e quella della Pubblica Amministrazione in generale, quindi soprattutto del sistema giustizia e dell’intero apparato burocratico! Inoltre, per evitare di ricadere nuovamente nei medesimi errori del passato, sarebbe altresì indispensabile una riforma dell’intero sistema bancario tale da consentire allo Stato di esercitare un effettivo controllo sulle banche affinché queste tornino a prestare denaro a famiglie e imprese, e non a fare speculazione finanziaria con i soldi dei risparmiatori. Ma perché ciò avvenga occorre soprattutto una precisa volontà politica in tal senso. Inoltre, ed è un fatto da non sottovalutare, ricordiamoci che l’Italia dispone di una riserva aurea tra le più consistenti d’Europa (circa 110 miliardi di euro): facciamo attenzione che i nostri governanti non la sciupino per fare gli interessi della piramide aristocratico-finanziaria!

Infine, sempre in merito alla soluzione di abbandonare la moneta unica e riappropriarsi della sovranità monetaria nazionale, parecchi politici e professoroni fanno continuamente “terrorismo” mediatico affermando, ad esempio, che tornare alla lira produrrebbe una svalutazione della moneta nazionale di circa il 50% e che i risparmi dei correntisti non varrebbero più nulla, al pari delle proprietà immobiliari. E’ falso! Innanzi tutto va chiarito che un ritorno alla moneta nazionale non significa tornare alla “vecchia lira” così come l’abbiamo conosciuta noi, e che riappropriarsi della sovranità monetaria significa avere una propria moneta nazionale (qualunque sia il nome che le si voglia dare, quindi ad esempio fiorino, scudo, euro-lira oppure anche semplicemente lira) e godere della facoltà di stampare nuova carta moneta (benché ciò comporterebbe un aumento dell’inflazione), disponendo quindi di strumenti indipendenti di politica monetaria[4].

Ciò premesso, qualora l’Italia tornasse ad avere propria sovranità monetaria, dovrebbe convertire anzitutto la nuova moneta nazionale con l’euro (sarebbe preferibile avere un rapporto 1 a 1, vale a dire ad esempio 1 “lira” = 1 euro, in tal modo si eviterebbe un aumento dei prezzi dovuto ad “aggiustamenti” a rialzo dei decimali), quindi il mercato stabilirà il valore della nuova moneta nazionale rispetto alle altre monete (il cosiddetto cambio)[5]. E’ tuttavia probabile che un ritorno alla sovranità monetaria causi sia una svalutazione di circa il 20-30% della nuova moneta nazionale (da non confondere la svalutazione con l’inflazione, sono due cose diverse) sia una flessione del valore delle proprietà immobiliari, oltre al fatto che ci troveremmo nella difficile situazione di dover importare le materie prime non in euro ma con una nuova moneta svalutata.

Ciò detto, la svalutazione della moneta non è da considerare come un fatto esclusivamente negativo, anzi, potrebbe addirittura rappresentare un’opportunità: è bene ricordare che la leva della svalutazione monetaria è stata una delle misure attuate nelle fasi economiche recessive del passato che favoriva le esportazioni grazie all’abbassamento dei prezzi, mentre l’euro a gestione Merkel  impedisce – di fatto – l’adozione di misure idonee a consentire una svalutazione competitiva della moneta unica soprattutto nei confronti del dollaro. L’Italia, nei momenti di crisi del passato, ha utilizzato più volte la leva della svalutazione monetaria al fine di rilanciare l’economia, la quale ha sempre ripreso a correre. Non c’è mai stato nulla di male, infatti, ad “aggiustare” i cambi in situazioni di recessione.

Oggi, con questo euro, il cosiddetto “aggiustamento” alle situazioni recessive (non avvenendo tramite la leva della svalutazione monetaria) avviene, purtroppo, attraverso il calo dell’occupazione. Le aziende, infatti, considerato che le merci prodotte non vengono acquistate, sono costrette a produrre di meno (o a chiudere) e a licenziare i propri dipendenti ovvero a ridurre gli stipendi o le ore di lavoro. Ciò premesso, se l’Italia uscisse dall’euro potrebbe trovare giovamento da una svalutazione competitiva della nuova moneta nazionale che consentirebbe una ripresa delle esportazioni grazie alla riduzione dei prezzi, quindi le aziende – in considerazione del fatto che le proprie merci verrebbero nuovamente acquistate – sarebbero conseguentemente spinte a produrre di più e ad assumere altro personale o, quanto meno, a non licenziare i dipendenti già assunti e a non ridurre i salari[6]. Stesso discorso dicasi in merito al valore degli immobili: un ritorno alla sovranità monetaria potrebbe causare una flessione del loro valore, ma ciò non deve rappresentare una conseguenza del tutto negativa, bensì un’ulteriore opportunità, infatti un numero maggiore di persone avrebbero la concreta possibilità di vedersi riconoscere effettivamente – e senza condizioni forcaiole ultratrentennali – il diritto all’acquisto di una casa. A tal proposito sarebbe onesto se gli euro-sostenitori (e quindi coloro che prevedono scenari apocalittici nel caso di un’uscita dell’Italia dalla moneta unica) ammettessero la circostanza che se un appartamento di 80 mq acquistato nel 2000 costava circa 180 milioni di lire (pressappoco gli attuali 90 mila euro), dopo appena sei anni il prezzo è più che raddoppiato, arrivando addirittura a superare i 200 mila euro, ossia poco meno di 400 milioni di lire!

Ciò detto, se un ritorno alla sovranità monetaria nazionale generasse l’abbassamento dei prezzi degli immobili (come del resto ha già causato la crisi economica in essere), di certo sarebbe un fatto positivo per tutti coloro che una casa non ce l’hanno perché non se la sono potuti permettere a causa dello sproporzionato aumento del costo del mattone (accompagnato da una forte speculazione) avutosi nel periodo 2002-2008. Ma l’aumento dei prezzi che si è avuto durante i primi anni dell’euro non ha riguardato solo il valore degli immobili, bensì  tutti gli scambi di beni e servizi. Un esempio banale – ma efficace –  è dato dal costo di un cono gelato: nel 2001 costava in media 2.000 lire (circa 1 euro di oggi), dopo appena sei anni il prezzo è praticamente triplicato (circa 3 euro, vale a dire quasi 6.000 lire!). E che dire del costo degli affitti degli appartamenti?! Il costo relativo all’affitto di una stanza a Milano, nel 2001, era di circa 500 mila lire (pari al 25% di uno stipendio medio di 2 milioni di lire), ma dopo appena tre/quattro anni è schizzato a 500 euro (quasi 1 milione di lire!), pari a circa il 40% di uno stipendio medio di 1.300 euro. Tali situazioni, a differenza di quanto invece avveniva in passato, non hanno visto un parallelo ed adeguato aumento degli stipendi, e ciò ha determinato – tra le altre cause – l’impoverimento del ceto medio! In pratica si è lasciata strada libera al mercato senza affiancarvi un’adeguata presenza dello Stato; in altre parole liberismo selvaggio e totale assenza dello Stato!

Tutto ciò premesso, chi fa previsioni catastrofiche nell’ipotesi in cui l’Italia uscisse dall’euro e si riappropriasse della sovranità monetaria, non fa altro che puro “terrorismo” mediatico a scapito di una serena analisi del problema[7].

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A dimostrazione della bontà delle soluzioni ut supra esposte [soprattutto quelle di cui alle lettere C) e D)], occorre anzitutto ricordare (seppur sommariamente e parzialmente) il pensiero di John Maynard Keynes, grande economista statunitense della prima metà del Secolo scorso: se il PIL e l’occupazione dipendono dalla domanda, per aumentarli occorrerà incrementare la domanda aggregata (la domanda dell’intera Nazione). Ciò detto, per uscire da una crisi economica è pertanto necessario spendere di più in modo da assorbire la produzione in eccesso ed eventualmente indurre le imprese a produrre di più. E’ ovvio che, perché si spenda di più, è altrettanto indispensabile che un numero sempre maggiore di persone percepiscano un reddito (meglio se da lavoro) e, di conseguenza, spendano gran parte di questo reddito per i consumi e gli investimenti. E tale necessità a “spendere di più” non vale solo per i privati ma anche per lo Stato, infatti la Domanda Aggregata è data dalla seguente formula: Consumi + Investimenti + Spesa Governativa + Esportazioni – Importazioni.

Se le proposte fin qui sommariamente esposte di cui alle lettere C) e D) fossero per davvero le giuste soluzioni per uscire dalla crisi, perché l’Europa ha sinora intrapreso una strada del tutto differente? La risposta è da ricercare, a mio modesto parere, sia nelle logiche egoistiche ed anti-democratiche della finanza speculativa internazionale e dei ricchi banchieri (tutti protetti dall’apparato eurocratico) che governano il Vecchio Continente, sia nel terrore che ha la Germania per il fenomeno inflattivo, timore che ha ragioni storiche fondate (almeno per quel che concerne il punto di vista tedesco) e risalenti al periodo della repubblica di Weimar.

È pertanto pacifico che, per poter dare attuazione anche ad una sola delle soluzioni ut supra succintamente argomentate [soprattutto quelle di cui alle lettere C) e D)], è necessario disporre di uomini di governo capaci e che amino per davvero il loro Paese, sicuramente con meno lauree, meno master e meno incarichi universitari, ma sicuramente con più coraggio e con maggiore consapevolezza della realtà. Purtroppo, come si è visto finora, i governanti italiani – adottando pesanti misure di austerity, stipulando Trattati internazionali forcaioli, introducendo nuove tasse, inasprendo fortemente gli strumenti di accertamento fiscale, ponendo un tetto alla circolazione del denaro contante e “abbassandosi i pantaloni” di fronte al rigore della Cancelliera tedesca Angela Merkel  (che sa far bene gli interessi del suo popolo) – non hanno fatto altro che peggiorare una situazione economica già pesantemente compromessa: il tutto a scapito di quel rapporto di fiducia Stato-cittadino costato milioni di vite umane… altro che uomini di Stato! Ma la cosa ancor più grave è che l’eccessivo rigore lacrime e sangue impostoci dal novembre 2011 in poi, accompagnato dalla martellante volontà espressa dai nostri rappresentanti di continuare a cedere porzioni di sovranità in favore degli organismi comunitari, non solo non sono serviti ad uscire dalla crisi economica, ma non sono serviti neppure a ridurre il nostro rapporto debito pubblico/PIL, salito – dal novembre 2011 ad oggi – di circa sei punti percentuali. Delle due l’una: o qui siamo tutti scemi e incapaci oppure qualcuno ci ha traditi e svenduti, altrimenti non si spiega come mai, trascorsi più di cinque anni dall’inizio della crisi, non ne vediamo ancora via d’uscita! La grande crisi economica del 1929, ben peggiore di questa e che toccò l’Italia solo parzialmente grazie anche a fortunate politiche economiche dell’allora Governo Mussolini, fu risolta negli USA (e successivamente nella maggior parte degli altri Paesi che ne furono colpiti) grazie alle Teorie Keynesiane.

In merito alle soluzioni che ho sommariamente prospettato nelle pagine precedenti [soprattutto quelle di cui ai punti C) e D)], si chieda il lettore cosa ha fatto il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama (d’accordo con il Presidente della Federal Reserve Ben Bernanke) perché il suo Paese uscisse dalla crisi economica. Disponendo dell’indispensabile sovranità politica e monetaria ha, dal 2009, immesso in circolo liquidità pari a circa 3.200 miliardi di dollari (tramite la Fed) al fine di dare ossigeno ad un’economia a pezzi e senza preoccuparsi di stare all’interno di un tetto nel rapporto deficit/PIL, il quale è salito addirittura al 12% (in Europa è rigidamente posto al 3%).

Inoltre, una delle conseguenze positive della politica monetaria espansiva è stata quella di una svalutazione competitiva del dollaro che sta ridando competitività all’industria americana.

Ciò detto, nel giro di qualche anno l’America è riuscita ad imboccare la strada giusta per uscire dalla crisi e, per il 2014, è prevista una crescita del suo PIL di circa il 3%! E per di più il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è sceso dal 12% al 6,3%[8], mentre nei Paesi dell’Eurozona è in media dell’11,8%, e in Italia ha raggiunto il 12,7% con la disoccupazione giovanile che è schizzata al 42,7%[9]. Imparino i nostri “professoroni” e i nostri “tecnici”, e tornino a studiare Keynes!

E che dire della decisione assunta in passato di privatizzare le banche? Quei “politici” che l’attuarono hanno sulla coscienza la funesta conseguenza che gli Istituti di Credito, invece di limitarsi ad adempiere alla loro missione naturale (prestare denaro ai cittadini e alle imprese ed amministrarlo secondo le leggi), hanno iniziato a speculare senza limiti utilizzando la gran parte del denaro dei loro risparmiatori (vedesi il caso del Monte dei Paschi di Siena sul quale è caduto un silenzio assordante). È ovvio che, senza alcun controllo da parte dello Stato (che sarebbe dovuto avvenire tramite la Banca d’Italia, anch’essa – di fatto – in mano a quelle banche che avrebbero dovuto essere a loro volta da questa vigilate), chi è naturalmente preposto a prestare denaro ad aziende e famiglie in difficoltà “chiude i rubinetti” rifugiandosi in logiche del tutto confliggenti con le legittime necessità dell’economia reale. E medesima culpa grave in vigilando ce l’ha anche la BCE, un’Istituzione che – così com’è stata concepita sinora – è quasi del tutto inutile se non per gli interessi della grande finanza speculativa! Ma la cosa più sconvolgente è che quegli stessi ipocriti che commisero questi errori (che ancora oggi fanno fatica a scomparire dalla scena pubblica), continuano imperterriti a lavarsi la bocca con parole come Costituzione e lavoro!

Inoltre, senza andare alla ricerca chissà di quale soluzione, uno dei maggiori problemi italiani è quello del cosiddetto sistema delle “porte girevoli”, il quale rende praticamente impossibile l’uscita del nostro Paese dalla drammatica situazione in cui si trova! Se chi ci governa è uomo di fiducia dell’Europa finanziaria, dei banchieri e del Bilderberg, una volta terminati gli incarichi di Governo rientra immediatamente nel “sistema” attraverso la propria appartenenza all’establishment europeista, quindi è ovvio che – quando è al Governo – non può che fare gli interessi del “Club”! E stesso discorso dicasi per quegli uomini che si accingono in futuro a ricoprire incarichi governativi: debbono purtroppo godere del gradimento di quello stesso establishment settario che è a capo di questa piramide anti-democratica e assolutistica! E, nonostante quanto premesso sia ormai sotto gli occhi di tutti, i nostri politici – riempiendosi ripetutamente la bocca con parole come Europa, stabilità e credibilità – continuano a far finta di nulla deviando l’attenzione popolare verso problemi che non esistono o che non necessitano di un celere intervento.

Spesso – e negli ultimi due anni non si parla di altro – le pagine dei giornali e le trasmissioni televisive sono inondate di continue ed ipocrite crociate contro i costi della politica (stipendi dei parlamentari e dei consiglieri regionali, pensioni d’oro percepite da deputati e senatori dopo pochissimi anni di legislatura, costi dei cosiddetti Palazzi del potere, buone uscite per i parlamentari che non vengono rieletti, rimborsi spese e rimborsi elettorali, auto blu etc, etc…), i quali, senza ombra di dubbio, sono giunti ad un livello vergognoso ed altamente indecente. Tuttavia, tanto per essere seri, bisogna ammettere che i costi della politica non c’entrano assolutamente nulla – se non unicamente da un punto di vista morale e di buon senso – con la situazione di crisi economica in cui versa l’Italia, infatti essi non possono rappresentare in alcun modo una soluzione ai problemi di natura macro-economica del nostro Paese, tant’è che incidono sulla spesa pubblica molto meno di quanto incide ad esempio un punto percentuale di I.V.A. Ciononostante, per aggraziarsi il consenso popolare, alcuni politici cercano di illudere la gente con la favoletta che diminuendo il numero dei rappresentanti del popolo o eliminando addirittura alcune Istituzioni repubblicane si risolvono magicamente i problemi del nostro Paese. E’ falso! Con questo non voglio affatto dire che le cose vanno bene così come lo sono state fino ad ora (e ci mancherebbe altro), infatti la riforma della politica, delle Istituzioni e della Pubblica Amministrazione sono temi importantissimi che meritano di essere affrontati con la massima urgenza, ma prendere in giro un’intera popolazione sul fatto che la riduzione dei costi della politica possa produrre effetti positivi sull’economia reale di una Nazione come l’Italia è del tutto privo di fondamento! Ammettiamo, per assurdo, che si giungesse alla totale soppressione dei costi della politica e quindi della maggior parte delle più importanti Istituzioni repubblicane (es. Camera dei deputati, Senato della repubblica, Consigli regionali, provinciali e comunali). L’effetto sarebbe quello di avere, oltre al sacrificio della democrazia, un risparmio di circa 2,5 miliardi di euro, quindi l’unico vantaggio reale che ne deriverebbe sarebbe quello – ad esempio – di poter ridurre l’aliquota I.V.A. di un punto percentuale (dal 22% al 21%), e non sarebbe neppure possibile farlo subito, infatti i 2,5 miliardi sarebbero comunque inferiori alla copertura necessaria e sufficiente (circa 4 miliardi). Non si avrebbe pertanto nessun altro beneficio se non quello che ho predetto nell’esempio: riduzione o eliminazione dei costi della politica = zero posti di lavoro in più. Inoltre, e lo dico a quei politici privi di coscienza critica e di onestà intellettuale, sarebbe opportuno fare molta attenzione a cavalcare l’onda populista dell’eliminazione – ad esempio – dei costi dovuti ai rimborsi elettorali che spettano ai partiti: benché vadano notevolmente ridotti, è bene ammettere che senza i predetti rimborsi la politica sarebbe ancor maggiormente condizionata dagli interessi dei banchieri, delle multinazionali e delle grandi lobby, il tutto a scapito della libertà e della democrazia e ad esclusivo vantaggio sia di coloro che dispongono di capienti risorse finanziarie (e che quindi possono permettersi di “fare politica” contrariamente a coloro che, anche se capaci e portatori di buone proposte, non dispongono delle risorse necessarie per supportare gli esorbitanti costi delle campagne elettorali) sia degli “squali”!

Medesimo discorso fatto per i costi della politica andrebbe fatto anche in merito al problema della corruzione, fenomeno ipocritamente utilizzato dai partiti (soprattutto in campagna elettorale) quale causa di tutti i mali e madre di tutte le soluzioni: pur essendo un reato gravissimo che lo Stato deve sicuramente contrastare con il massimo impegno, resta – appunto – solo un reato, infatti non c’entra assolutamente nulla né con la crisi economica né con gli eventuali strumenti da adottare perché si risolvano seriamente i problemi di macro-economia del nostro Paese. Anche in questo caso, l’equazione è la stessa: lotta alla corruzione = zero posti di lavoro in più. E tutto questo i cittadini lo devono sapere! L’Italia ha bisogno, prima che di politici onesti, soprattutto di politici capaci e sensibili sia alle reali esigenze dei cittadini che alle bellezze artistiche e culturali del nostro meraviglioso Paese. Personalmente sono convinto (e non è un “crimine” pensarlo) che il politico – prima di essere onesto – deve anzitutto essere capace; diceva infatti Benedetto Croce che il vero politico onesto è il politico capace!

***

A conclusione di questo mio articolo/manifesto, non posso non osservare come, trascorsi circa due Secoli di guerre, morti e distruzioni (dal 1789 al 1945) – fatte per donare alle generazioni future libertà, democrazia, solidarietà e rappresentatività della volontà popolare –, il principio democratico sta cedendo il posto (se non l’ha già ceduto) ad una nuova forma di Aristocrazia europea anti-democratica e criminale: nessuno si rende conto che – tramite una sontuosa cornice di ipocrisia sostenuta da soggetti fiduciari dell’establishment aristocratico/finanziario – il sistema che regge il vero potere in Europa è ben peggiore (da un punto di vista democratico e quindi sotto l’aspetto del deficit di rappresentanza) sia dell’Ancien Régime ante Rivoluzione francese sia delle dittature del Secolo scorso. I dittatori del Novecento – qualunque sia, nel bene o nel male, il giudizio della Storia – basarono comunque il loro consenso politico sulla volontà popolare, talvolta addirittura plebiscitaria. L’Unione Europea, invece, è retta da circa venti grigi tecnocrati non eletti da nessuno (quindi senza alcun rapporto, neppure indiretto, con i cittadini), i quali – governando circa quattrocento milioni di persone e decidendone i destini – rispondono unicamente agli interessi degli speculatori finanziari, dei banchieri, delle multinazionali, della massoneria e – quindi – della nuova Aristocrazia europea: tutti tasselli di un unico mosaico del nuovo Ancien Régime assolutistico del Terzo Millennio[10]!

E proprio quegli stessi che ci hanno ridotto in braghe di tela continuano – nonostante l’evidente disastro che hanno causato con il loro “progetto” – a lavarsi la bocca con parole come Europa, libertà, democrazia, credibilità, integrazione e diritti civili!

Si vergognino!

Il popolo è stato – e lo è ancora – vittima di spauracchi costruiti ad arte come lo spread [11] ovvero di ricatti morali del tipo: «Ce lo chiede l’Europa!». Quale Europa poi? Quella delle banche, dei tecnocrati e delle multinazionali? Purtroppo ci siamo fatti fregare proprio da questi! Ma la cosa più importante di cui avremmo dovuto ricordarci – ma che siamo ancora in tempo a fare – è quella che, piaccia o no, la sovranità appartiene solo al popolo[12]! Non tirino troppo la corda i burocrati e i politici nostrani perché con il popolo, prima o poi, si finisce per sbattere il grugno.

E da italiano che ama il suo Paese dico loro:

Non vedete che tutta si scote, / Dal Cenisio alla balza di Scilla? / Non sentite che infida vacilla / Sotto il peso de’ barbari piè?[13].

Grazie all’ipocrisia degli “Europeisti a tutti i costi”, che appartengono a quel mondo radical chic con la puzza sotto il naso e con il vizio di ghettizzare coloro che la pensano diversamente, il nostro amato Paese – con tutte le sue bellezze artistiche, culturali, industriali, artigianali, intellettuali e di capacità dei singoli – è ormai in svendita a prezzi stracciati!

Di fronte a tanta delusione mi tornano di nuovo a mente i versi del Manzoni: “Oggi, o forti, sui volti baleni / Il furor delle menti segrete: / Per l’Italia si pugna, vincete! / Il suo fato sui brandi vi sta. / O risorta per voi la vedremo / Al convito dei popoli assisa, / O più serva, più vil, più derisa / Sotto l’orrida verga starà[14].

“Grazie” Europa! “Grazie” politici! “Grazie” professoroni!

Avete dalla vostra la forza micidiale di rubarci il futuro, ma non potrete appropriarvi della nostra sconfinata libertà di pensiero! Quella non l’avrete mai!

Se il vostro “progetto criminale” rappresenta il duro destino che mi spetta e che attende anche le sorti di mia figlia, io voglio restare profondamente italiano… a tutti i costi!

Viva la Libertà!

Avv. Giuseppe Palma del foro di Brindisi


[1] La Grande Guerra, Italia-Francia 1959 – regia di Mario Monicelli con Vittorio Gassman e Alberto Sordi. Verso la fine del film c’è una scena molto simpatica nella quale i soldati, mentre attendono la distribuzione del pasto ritardata per un’improvvisa visita del generale, si lamentano tra di loro delle ridotte quantità e della scarsa qualità del rancio. A quel punto i militari manifestano l’esigenza di portare direttamente le loro lamentele al cospetto del graduato, e viene scelto il soldato Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) quale rappresentante per tutti. All’arrivo dell’Ufficiale (che ha anche la gentilezza di comunicare di essere in visita amichevole), questo ordina che venga distribuito il rancio, e chiede al soldato  Jacovacci di dirgli cosa ne pensa del suo pasto. Come se nulla fosse successo e spaventato di un’eventuale ritorsione, Jacovacci risponde battendo i tacchi: «Ottimo e abbondante signor generale!»; «Invece è uno schifo […]» gli risponde deciso l’Ufficiale, che riprende la visita ordinando che si provveda a risolvere il problema. Di fronte allo sfottò degli altri commilitoni, Jacovacci esclama: «L’ho fatto apposta, pé vedé che diceva, magari ce provava a dì che era bono!». Allo stesso modo si sono comportati, con tutti i limiti cui ovviamente si presta il paragone, la maggior parte dei nostri Presidenti del Consiglio degli ultimi ventidue anni! Tuttavia, alla fine del film, il soldato Jacovacci si riscatterà facendosi fucilare (insieme al suo compagno d’armi il soldato Giovanni Busacca, interpretato da Vittorio Gassman) per non aver svelato al nemico austro-ungarico la postazione del ponte di barche italiano. I nostri governanti e la maggioranza dei nostri parlamentari, invece, continuano imperterriti ad obbedire ai diktat stranieri cercando inoltre di convincerci che per uscire dalla crisi ci vuole più Europa. Pura follia o chiaro disegno di sottomissione? Non ai posteri, ma a noi, l’ardua sentenza.

[2] Il passaggio in corsivo è stato reperito integralmente dal seguente sito internet: http://it.wikipedia.org/wiki/Patto_di_bilancio_europeo#Critiche

[3] Per maggiore chiarezza – e a scanso di equivoci – è bene chiarire che quando entrerà in vigore il Fiscal Compact, il parametro che l’Italia dovrà rispettare nel rapporto deficit/PIL non sarà più del 3% (come previsto dal Trattato di  Maastricht) bensì dello 0,5%. Ciononostante, i nostri politici fanno finta di nulla e continuano a parlare del 3%! Pensi il lettore a quali conseguenze economico-sociali condurrà tale ulteriore restrizione.

[4] La lira del passato era una moneta debole ed anche la nuova moneta nazionale sarebbe debole, ma l’Italia – probabilmente – ha bisogno di una moneta che possa essere stampata e svalutata. Stampare moneta, infatti, permette (almeno in teoria) di poter avere fondi governativi sempre disponibili, coprire potenzialmente il debito senza emetterne di nuovo e, tramite la svalutazione, far ripartire l’economia reale favorendo le esportazioni dei nostri prodotti grazie ai bassi prezzi che ciò comporterebbe (Lorenzo Nannetti, Senior Analyst e Responsabile Scientifico dell’associazione culturale denominata Il Caffè Geopolitico). Bisogna comunque ammettere, per completezza di esposizione, che l’eventuale ritorno ad una moneta nazionale produrrebbe molto probabilmente una perdita del potere di acquisto dei salari e dei risparmi. Tuttavia, anche l’euro – per diverse cause – ha generato la medesima perdita di potere d’acquisto, quindi bisogna essere molto cauti a “criminalizzare” un eventuale ritorno alla sovranità monetaria nazionale.

[5] Ricordo inoltre al lettore che l’Italia, nonostante la crisi economica, conserva ancora posizioni importanti in taluni settori produttivi quali il manifatturiero, l’agro-alimentare ed il turismo, pertanto un’eventuale uscita del Bel Paese dalla moneta unica andrebbe valutata anche sulla base di quanto premesso, evitando di fare paragoni poco opportuni con altre situazioni o altri Paesi che non hanno i nostri stessi fondamentali.

[6] Ricordo al lettore che l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1 co. I della Costituzione) e non sulla stabilità monetaria.

[7] Un altro tema che meriterebbe maggiore approfondimento, ma nel quale non è mia intenzione addentrami in questa sede, è quello che i cittadini italiani non sono mai stati chiamati ad esprimersi in merito all’adesione del nostro Paese all’unione monetaria (euro). Considerato che non è possibile indire un referendum abrogativo per effetto della disposizione costituzionale di cui all’art. 75 co. II, ritengo sia comunque giusto individuare un’altra forma di espressione democratica (magari di natura consultiva) che consenta ai cittadini di poter liberamente esprimere il proprio parere in merito al fatto che l’Italia continui o meno a mantenere la moneta unica.

[8] Il lettore che volesse approfondire questo aspetto, potrà leggere l’articolo dell’economista italiano Elido Fazi, intitolato: “Perché l’Italia è tra i grandi Paesi occidentali il Paese più penalizzato dalla crisi? E come ne usciamo?”, pubblicato in data 17 gennaio 2014 sulla Rivista elettronica denominata One Euro – the italian economist, reperibile sul sito internet: http://www.oneeuro.it/2014/01/17

[9] Fonte: Eurostat.

[10] Il lettore che volesse approfondire l’argomento, potrà leggere la mia pubblicazione storico-giuridica intitolata: “La Rivoluzione francese e i giorni nostri. Dall’Ancien Régime alla nuova Aristocrazia europea […]”, Editrice GDS (versione cartacea ottobre 2013; versione e-book novembre 2013).

[11] Lo spread BTP-BUND è il differenziale tra gli interessi sui titoli di Stato italiani e gli interessi sui titoli di Stato tedeschi. In parole semplici è la differenza in termini di interessi tra quanto paga l’Italia per poter collocare i propri titoli di Stato e quanto paga la Germania per poter collocare i propri.

[12] Art. 1 co. II della Costituzione: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

[13] Alessandro Manzoni, Marzo 1821, vv. 45-48.

[14] Alessandro Manzoni, Marzo 1821, vv. 89-96.

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