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Opinioni

La nullità contrattuale è sempre rilevabile d’ufficio: Cass Sez Un 04.09.2012 n. 14828

Le preclusioni o le decadenze processuali non possono limitare il potere (ma direi il ruolo) del Giudice diretto a controllare la legalità degli atti, altrimenti, se così non fosse, ci si troverebbe – quanto meno – in presenza di un’ipotesi di sanatoria dell’invalidità di un atto nullo non prevista dall’ordinamento, ma, soprattutto, sarebbe svilito il ruolo e la funzione del Giudice.
A cura di Paolo Giuliano
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Alcune volte capita che ci si trova in presenza di norme tra loro contraddittorie o che se intepretate in modo letterale possono minare la base della struttura dell'ordinamento.

Un esempio è dato proprio dal combinato disposto tra l'art. 1421 c.c. e gli art. 112, 163, 167  e 183 cpc.  Infatti, da un lato, l'art. 1421 c.c. rubricato con il titolo di "Legittimazione all'azione di nullità" il quale dispone che "Salvo diverse disposizioni di legge, la nullità può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse e può essere rilevata d'ufficio dal giudice" dal quale risulta che la nullità di un atto, la sanzione più grave che può colpire un determinato negozio, può essere rilevata dal Giudice d'ufficio, poichè, è intuitivo comprendere, che è compito del Giudice impedire che un atto possa continuare a  "circolare"  quando viene colpito dalla sanzione più grave prevista dall'ordinamento. Dall'altro lato, gli art. 112, 163, 167 e 183 cpc delineano un sistema in cui il giudice non può statuire "oltre" le richieste delle parti  e di preclusioni e decadenze processuali che impediscono, dopo determinati momenti, di inserire nel processo ulteriori motivi di contestazione.

E' evidente che se si privilegia l'aspetto processuale si potrebbe giungere ad affermare che un contratto nullo, la cui nullità non è stata chiesta o rilevata dalle parti, prima che maturino le decadenze e preclusioni previste dal codice di procedura civile, non potrebbe più essere rilevata neppure dal Giudice. Quindi, si potrebbe avere un contratto nullo perchè con causa illecita, ma in base alle norme sul principio della domanda e alle norme sulle preclusioni processuali, ci si troverebbe nella necessità di fingere di considerare  "valido" un contratto anche se sostanzialmente nullo, non perchè è realmente valido, ma, in quanto, è processualmente ritenuto tale. Se, invece, si privelegia l'aspetto di diritto sostanziale, la nullità  potrebbe essere sempre rilevata e dichiarata (in qualsiasi stato e grado del procedimento) anche se sono già maturate le preclusioni processuali previste dal codice di rito.

Il problema è pacifico, tanto che subito si è cercato di porvi rimedio, sostenendo che la nullità potrebbe essere rilevata d'ufficio senza limitazioni se viene chiesto l'adempimento del contratto nullo, ma se viene chiesta la risoluzione del contratto nullo, le preclusioni processuali sarebbero prevalenti sul disposto della'rt. 1421 c.c.

E' chiaro che, in quest'ultima ipotesi, il ruolo del Giudice, nella sua funzione di controllore della legalità,  sarebbe limitato, ma, soprattutto, ci si troverebbe in presenza di una notevole incongruenza, dovuta al fatto che si potrebbe dichiarare la risoluzione o l'inadempimento relativo ad un contratto, comunque, nullo. E questo è in contraddizione con il presupposto alla base della domanda di risoluzione che si fonda  (come nella domanda di adempimento) sull'accertamento del vincolo contrattuale, (altrimenti non ci potrebbe essere risoluzione),  l'unica differenza – tra l'azione di adempimento di di risoluzione – si trova nelle conseguenze, infatti, in un caso, accertato il vincolo contrattuale, si chiede di scioglierlo, (come nella risoluzione), nell'altro caso accertato il vincolo contrattuale si chiede di per eseguirlo (come nell'adempimento).

Risulta, quindi, accertato  che le due azioni che hanno entrambe lo stesso presupposto, per cui non possono essere trattate in modo diverso, cioè non possono essere conseguenze diverse  in caso di nullità del contratto, questo perchè la nullità non colpisce la fase finale (esecuzione  o risoluzione) ma incide sull'elemento comune ad entrambe l'accertamento del vincolo contrattuale da cui derivano determinate conseguenze siano queste di esecuzione del contratto, siano queste di inadempimento dello stesso.

 Tutto questo dovrebbe chiarire perchè per risolvere la questione sono dovute intervenire le Sezioni Unite della Cassazione, le quali hanno scelto la ricostruzione sostanziale della nullità.

Cassazione, Sezioni Unite Civili, 4 settembre 2012, n. 14828

2) Secondo l'orientamento dominante in giurisprudenza, "il potere del giudice di dichiarare d'ufficio la nullità di un contratto ex art. 1421 c.c. va coordinato col principio della domanda fissato dagli art. 99 e 112 c.p.c., sicché solo se sia in contestazione l'applicazione o l'esecuzione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda, il giudice è tenuto a rilevare, in qualsiasi stato e grado del giudizio, l'eventuale nullità dell'atto, indipendentemente dall'attività assertiva delle parti. Al contrario, qualora la domanda sia diretta a fare dichiarare la invalidità del contratto o la risoluzione per inadempimento, la deduzione (nella prima ipotesi) di una causa di nullità diversa da quella posta a fondamento della domanda e (nella seconda ipotesi) di una qualsiasi causa di nullità o di un fatto costitutivo diverso dall'inadempimento, sono inammissibili: né tali questioni possono essere rilevate d'ufficio, ostandovi il divieto di pronunciare ultra patita" (tra le tante v. Cass. 2398/88; 6899/87). Cass. n. 1127/70 sostenne con chiarezza che la rilevabilità ex officio della nullità del contratto, sancita dall'art. 1421 c.c., opera, anche in sede di impugnazione, quando si chieda in giudizio l'applicazione del contratto, perché in tal caso "la legge stessa respinge con la forza dei suoi principi imperativi gli effetti che promanano da un negozio affetto da nullità assoluta". Aggiunse che quando in giudizio non si chiede l'applicazione del contratto, ma la risoluzione di esso, il giudice non può dichiarare ex officio la nullità, perché il divieto di decidere su domande non proposte si concreta in un preclusione all'esercizio della giurisdizione, la cui violazione "da luogo a vizio di extrapetizione". Questo insegnamento si è tramandato con continuità di accenti (cfr. Cass. 14/71; 661/71; 3443/73; 243/77; 5295/78; 5766/79), sebbene significativamente resistito dalla coeva Cass. n.578/70, la quale aveva, proprio in ipotesi di domanda di risoluzione di contratto preliminare relativo a compravendita nulla perché simulata, semplicemente osservato che la Corte di appello avrebbe dovuto senz'altro rilevare la nullità, "dal momento che la nullità può essere rilevata dal giudice anche d'ufficio" (v. anche Cass. 550/86).

2.1) Negli anni successivi, accanto a pronunce conformi all’orientamento tradizionale (indicativamente cfr. Cass. 4817/99; 1378/99; 4607/95; 4064/95; 1340/94; 141/93), costanti nel ribadire che la nullità del contratto è rilevabile d'ufficio, sempre che risultino acquisiti al processo gli elementi che la evidenziano, solo nella controversia promossa per far valere diritti presupponenti la validità del contratto stesso, non anche nella diversa ipotesi in cui la domanda prescinda dalla suddetta validità, come quando la domanda sia diretta a far dichiarare l'invalidità del contratto o a farne pronunciare la risoluzione per inadempimento, mette conto segnalare, in senso opposto, qualche significativa presa di posizione del giudice di legittimità. Trattasi di Cass. n. 2858/97 (e anche Cass. 6710/94), che ha ritenuto che "la nullità di un contratto del quale sia stato chiesto l'annullamento (ovvero la risoluzione o la rescissione) può essere rilevata d'ufficio dal giudice, in via incidentale, senza incorrere in vizio di ultrapetizione, atteso che in ognuna di tali domande è implicitamente postulata l'assenza di ragioni che determinino la nullità del contratto; pertanto il rilievo di quest'ultima da parte del giudice da luogo a pronunzia che non eccede il principio dell'art. 112 c.p.c.".

2.2) Fino all'anno 2005, nel corso del quale il contrasto si è radicato con maggior vigore, si censiscono numerose sentenze ispirate all'orientamento tradizionale (v. Cass. n. 123/00; 12644/00; 13628/01; 435/03; 2637/03). Cass. 3 sez civ. 22.3.2005 n. 6170 ha vistosamente infranto questo fronte giurisprudenziale, affermando, in accordo con la dottrina quasi unanime, che le domande di risoluzione e di annullamento presuppongono la validità del contratto, dunque "implicano, e fanno valere, un diritto potestativo di impugnativa contrattuale nascente dal contratto in discussione, non meno del diritto all'adempimento". La Corte ha in quell'occasione evidenziato che la domanda di risoluzione contrattuale è animata da sostanziale identità di presupposti con la domanda di adempimento, secondo quanto riconosciuto da Cass. Sez. Un. 13533/01. L'accertamento sulla nullità del contratto ha, secondo Cass. 6170/05, natura di pronuncia incidentale su una pregiudiziale in senso logico, con la conseguenza che: a) il giudice deve dichiarare d'ufficio la nullità negoziale in ogni caso; e b) l'accertamento d'ufficio ex art. 1421 c.c., ha effetto anche in successivi giudizi imperniati sul contratto dichiarato nullo, non perché si verta in ipotesi di cui all'art. 34 c.p.c., ma "perché l'efficacia della decisione di detta nullità, pregiudiziale alla statuizione di rigetto della domanda, costituisce giudicato implicito".

2.3) L'ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite da conto del successivo radicalizzarsi delle due posizioni.

3) Da un lato l'ulteriore frazionarsi del quadro giurisprudenziale; dall'altro le gravi incertezze derivanti dalla radicalizzazione delle conseguenze delle due tesi impongono la composizione del contrasto. Occorre partire dai rilievi che da gran tempo la dottrina ha formulato con riguardo al rapporto tra azione di risoluzione e nullità del contratto. Si è osservato che la domanda di risoluzione comporta l'esistenza di un atto valido, perché mira a eliminarne gli effetti. Domanda di adempimento e domanda di risoluzione implicano quindi allo stesso modo la richiesta di applicazione del contratto, presupponendo che esso sia valido. La funzione dell'art. 1421 cc, è di impedire che il contratto nullo, sul quale l'ordinamento esprime un giudizio di disvalore, possa spiegare i suoi effetti. Il compito di far valere la nullità è in via di azione affidato a chiunque abbia interesse, ma al giudice, al quale si chiede di giudicare secundum ius, spetta di rilevare se un atto è nullo e quindi di evidenziare in giudizio la mancanza di fondamento di una domanda che presupponga la sussistenza dei requisiti di validità del contratto.

3.1) L'aver insistentemente negato che l'azione di risoluzione presupponga, dal punto di vista logico, la validità del contratto e che dunque sia possibile la risoluzione del contratto nullo è tesi invisa alla maggioranza della dottrina civilistica. La spiegazione dell'atteggiamento giurisprudenziale ostile al rilievo officioso della nullità riposa sulla doppia natura della norma, che è all'incrocio tra diritto sostanziale e diritto processuale. Se si rammentano le ragioni della giurisprudenza maggioritaria sopra riassunte, si nota che la ritrosia delle Corti rispetto al rilievo della nullità del contratto nasce da timori di natura processuale, quali la violazione del principio di terzietà e dell'obbligo di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.  Ciò ha portato a una riduttiva lettura dell'art. 1421 c.c., ipotizzando che solo l'azione di adempimento richieda la verifica dell'esistenza dei requisiti di validità ed efficacia del negozio da cui è sorta l'obbligazione, questione su cui vi è invece da interrogarsi per ogni azione contrattuale. Si è quindi verificata una inversione logica, prontamente segnalata in dottrina: per il timore dell'extrapetizione e quindi di ampliare indebitamente la formazione del giudicato, anziché ragionare sulla portata della decisione conseguente al rilievo officioso della nullità, si è preferito restringere l'area in cui detta questione è rilevabile, limitandola (oltre che all'azione di nullità espressamente proposta) all'azione di adempimento.

Questa linea interpretativa non è più sostenibile.

3.2) Essa in primo luogo svilisce la categoria della nullità, l'essenza della quale, pur con i molti distinguo dottrinali su cui non è il caso di soffermarsi, risiede nella tutela di interessi generali, di valori fondamentali o che comunque trascendono quelli del singolo. La qualificazione negativa che l'ordinamento da del contratto viene elusa dall'orientamento fin qui dominante, il che è incoerente con l'insegnamento professato in ipotesi di domanda di esecuzione del contratto. Si è infatti affermato (S.U. 21095/04) che la nullità può essere rilevata d'ufficio, in qualsiasi stato e grado del giudizio, indipendentemente dall'attività assertiva delle parti, quindi anche per una ragione diversa da quella espressamente dedotta, nel caso in cui sia in contestazione l'applicazione o l'esecuzione del contratto, la cui validità rappresenta quindi un elemento costitutivo della domanda; con la conseguenza che la contestazione della validità dell'atto non costituisce domanda giudiziale, bensì mera difesa, che non condiziona l'esercizio del potere di dichiarare d'ufficio la nullità per vizi diversi da quelli eccepiti.

3.3) In secondo luogo viene depotenziato il ruolo che l'ordinamento affida all'istituto della nullità, per esprimere il disvalore di un assetto di interessi negoziale. Non può negarsi che, nonostante talune critiche degli operatori del diritto, esso è stato negli ultimi decenni ampliato, introducendo con la legislazione speciale nuovi casi di nullità contrattuale. Questo ruolo trae forza anche dalla previsione della rilevabilità di ufficio, che, salvi i casi di espressa deroga, contribuisce a definire il carattere indisponibile delle norme in tema di nullità. Infatti, al di là delle distinzioni tra le stesse ipotesi di nullità previste nel codice, che anche in giurisprudenza sono state in proposito tentate, l'unica differenza che rilevi ai fini del disposto normativo in esame è quella ravvisabile con le nullità per le quali sia dettato un regime speciale, come nel caso delle c.d. nullità di protezione, in cui il rilievo del vizio genetico è espressamente rimesso alla volontà della parte.

3.4) Con riferimento al regime delle nullità, occorre portare l'attenzione su quanto è stato stabilito dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, Sez. 4, 4 giugno 2009, causa 0243/08 ha stabilito che il giudice deve esaminare d'ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale e, in quanto nulla, non applicarla, tranne nel caso in cui il consumatore vi si opponga. L'uso in questa sentenza del termine obbligo, anziché di quello facoltà, in precedenza comune, è stato inteso come acquisita consapevolezza del concetto di dovere dell'ufficio di rilevare la nullità ogniqualvolta il contratto sia elemento costitutivo della domanda. Dunque non di facoltà propriamente trattasi, ma di obbligo, così come il verbo "può" usato nell'art. 1421 c.c., è da intendersi "deve", laddove la domanda proposta implichi la questione da rilevare e non si ponga quindi un problema di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Di sicura importanza è poi la sentenza Asturcom (6 settembre 2009 in procedimento C- 40/08), in forza della quale il giudice è tenuto, a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, a valutare d'ufficio il carattere abusivo della clausola contenuta in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, qualora, secondo le norme procedurali nazionali, egli possa procedere a tale valutazione nell'ambito di ricorsi analoghi di natura interna. In tal caso, incombe a detto giudice di trarre tutte le conseguenze che ne derivano secondo il diritto nazionale, affinché il consumatore di cui trattasi non sia vincolato da detta clausola. Dalla considerazione che la giurisprudenza comunitaria attribuisce al potere-dovere di rilievo d'ufficio della nullità, risulta ancor più appropriato parlare di disagio del civilista in caso di mancato uso dei poteri officiosi.

4) Si torna per questa via ai profili processuali, dai quali ha tratto spunto l'orientamento restrittivo. Muovendo dal rilievo, sopra argomentato, che l'azione di risoluzione per inadempimento è coerente solo con l'esistenza di un contratto valido, va detto che la nullità del contratto è un evento impeditivo che si pone prioritariamente rispetto alla vicenda estintiva della risoluzione. Il giudice chiamato a pronunciarsi sulla risoluzione di un contratto, di cui emerga la nullità dai fatti allegati e provati e comunque ex actis, non può sottrarsi all'obbligo del rilievo e ciò non conduce ad una sostituzione dell'azione proposta con altra. Soltanto fa emergere una eccezione rilevabile d'ufficio, che può condurre a variabili sviluppi processuali, ma con cui viene qualificata una ineliminabile realtà del rapporto controverso, senza squilibrare i rapporti tra le parti, né introdurre una materia del contendere che non faccia già parte dell'oggetto del giudizio. In quel giudizio, che mira a riconoscere vigore ai contratto, viene eccepito, anche d'ufficio, come d'obbligo, un impedimento costituito da un motivo di nullità, con la conseguenza, salvo quanto si dirà nel paragrafo seguente, del rigetto della domanda di risoluzione per una ragione che impedisce di accertare quale delle due parti sia inadempiente. Opera così l'innegabile funzione oppositiva del potere-dovere di cui all'art. 1421, sicuramente individuata dall'orientamento restrittivo, ma da esso non ben coniugata con la regola di cui all'art. 112 c.p.c., giacché la decisione, in questi limiti, resta sicuramente nell'ambito del petitum. La stessa funzione, si badi, non è con altrettanto nitore ravvisabile nel caso di azione di annullamento, il che peraltro rafforza il convincimento che si viene esprimendo in tema di azione di risoluzione. Invero alcuni autori, nell'indagare la tematica che ci occupa e più in generale la funzione dell'azione di nullità, hanno evidenziato che la rilevazione incidentale della nullità è doverosa nel casi di azione per l'esecuzione o la risoluzione del contratto, ma non nel caso in cui siano allegati altri vizi genetici, come avviene nell'azione di annullamento. La relativa domanda non postula la validità del contratto, sicché, sebbene la tradizione giurisprudenziale e dottrinale dell'orientamento favorevole al rilievo d'ufficio apparenti le ipotesi di risoluzione, annullamento e rescissione, andrà a suo tempo verificato se sussistano l presupposti per questa equiparazione.

4.1) Gli orientamenti giurisprudenziali sin qui manifestatisi hanno trascurato gli esiti processuali che pure la dottrina aveva intuito da molto tempo e che ha ora delineato con precisione anche grazie, da ultimo, alle modifiche degli artt. 101 e 153 c.p.c.. Sin dalla versione originaria del codice di rito, il secondo comma dell'art. 183 prevedeva il dovere del giudice di indicare alle parti le questioni rilevabili d'ufficio, – tra le quali senza dubbio rientra la nullità del contratto – con la possibilità di armonizzare il principio di cui all'art. 1421 c.c. con quelli del contraddittorio, della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. A seguito della riforma di cui alla legge 353/90, l'introduzione del regime delle preclusioni ha reso ancor più stringente, per effetto delle scansioni temporali, questo obbligo del giudice (trasfuso prima nel terzo e ora nel quarto comma del medesimo articolo), indispensabilmente connesso alla conoscenza dei fatti di causa anche tramite la richiesta di chiarimenti, eventualmente in sede di libero interrogatorio. È questo il manifestarsi del principio di collaborazione tra giudice e parti, e non un innaturale esercizio dei poteri processuali, come pure ha temuto parte della dottrina che ha sorretto l'orientamento restrittivo. A seguito del rilievo officioso, le parti hanno possibilità di formulare domanda che ne sia conseguenza (arg. ex art. 183 comma IV, ora comma V) e quindi anche la eventuale domanda di risoluzione potrà essere convertita in (o cumulata con) azione di nullità. A favorire questo sviluppo processuale, che, è da credere, avrà corso nella maggior parte dei casi, confinando ad ipotesi residuali la insistenza esclusivamente nell'iniziale domanda di risoluzione, sono anche le recenti modifiche sopra indicate. Il nuovo comma secondo dell'art. 101 c.p.c. (aggiunto dall'art. 45 L. 69/09, ma già v. art. 384 c.p.c.) impone anche al giudice che sia in fase di riserva della decisione, se ritiene di porre a fondamento di quest'ultima una questione rilevata d'ufficio, di assegnare alle parti un termine per memorie contenenti osservazioni sulla questione. L'art. 153 ha ampliato la facoltà di essere rimessa in termini della parte che sia incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile, come accade quando il rilievo officioso giunga tardivamente. In tal caso il giudice dovrà, nei limiti schiusi dal rilievo stesso, consentire la formulazione di ogni conseguente deduzione. Giova osservare che già la problematica era stata messa a fuoco in relazione alla nullità della sentenza c.d. della terza via (si veda Cass. 14637/01). Con pienezza di argomenti, Cass. 21108/05 ha successivamente precisato che il giudice che ritenga, dopo l'udienza di trattazione, di sollevare una questione rilevabile d'ufficio e non considerata dalle parti, deve sottoporla ad esse al fine di provocare il contraddittorio e consentire lo svolgimento delle opportune difese, dando spazio alle consequenziali attività. La mancata segnalazione da parte del giudice comporta la violazione del dovere di collaborazione e determina nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa delle parti, private dell'esercizio del contraddittorio, con le connesse facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste istruttorie sulla questione che ha condotto alla decisione solitaria. Qualora la violazione, nei termini suindicati, si sia verificata nel giudizio di primo grado, la sua denuncia in appello, accompagnata dalla indicazione delle attività processuali che la parte avrebbe potuto porre in essere, cagiona, se fondata, non già la regressione al primo giudice, ma, in forza del disposto dell'art. 354 comma quarto cod. proc. civ., la rimessione in termini per lo svolgimento nel processo d'appello delle attività il cui esercizio non è stato possibile. È questa dunque la via da percorrere, che pone nel nulla tutte le perplessità in tema di extrapetizione, poteri del giudice e "soggettivismo giudiziario" a suo tempo fatte proprie dalla giurisprudenza maggioritaria riassunta sub 2.2.

4.1.1) Altro esito del rilievo d'ufficio della nullità e del relativo accertamento è l'accoglimento di ogni richiesta formulata unitamente alla domanda di risoluzione e compatibile con la diversa ragione rappresentata dalla nullità, come avviene nel caso di domanda restitutoria. Questa conseguenza si verifica senz'altro in ipotesi di modifica della domanda con richiesta di declaratoria della nullità. Altrettanto avverrà però in ipotesi di rigetto – fondato sulla nullità contrattuale rilevata d'ufficio – della domanda di risoluzione, alla quale sia associata, anche originariamente, la richiesta di condanna alle restituzioni. Il rilievo della nullità fa venir meno la "causa adquirendi" e la richiesta di restituzione del bene consegnato in esecuzione del contratto, che era già stata formulata con la pretesa iniziale, sarà accolta sulla base di questo presupposto, senza bisogno di espressa dichiarazione della nullità. Va infatti confermato che qualora venga acclarata la mancanza di una "causa adquirendi” – tanto nel caso di nullità, annullamento, risoluzione o rescissione di un contratto, quanto in quello di qualsiasi altra causa che faccia venir meno il vincolo originariamente esistente – l'azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto stesso è quella di ripetizione di indebito oggettivo; ne consegue che, ove sia proposta una domanda di risoluzione del contratto per inadempimento e il giudice rilevi, d'ufficio, la nudità del medesimo, l'accoglimento della richiesta restitutoria conseguente alla declaratoria di nullità, non mutando la causa petendi, non viola il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (v. Cass. 2956/11 cit.) inoltre cfr. Cass. 9052/10; 1252/00; e anche 21096/05; 5624/09).

4.2) La ricostruzione del sistema ha conseguenze intuibili quanto al giudicato. Qualora dopo il rilievo ufficioso sia stata formulata, tempestivamente o previa rimessione in termini, domanda volta all'accertamento della nullità e ad eventuali effetti restitutori, la statuizione sui punto, se non impugnata, avrà effetto di giudicato. Nel caso in cui sia omesso il rilievo officioso della nullità, e l'omissione venga fatta valere in sede di appello, il giudice del gravame dovrà rimettere in termini l'appellante e procedere secondo quanto dettato da Cass. 21108 cit.. Ove non sia formulata tale domanda, il rilievo della nullità fa pervenire al rigetto della domanda di risoluzione con accertamento incidenter tantum della nullità, dunque senza effetto di giudicato sul punto. Il giudicato implicito sulla validità del contratto, secondo il paradigma ormai invalso (cfr Cass, S.U. 24883/08; 407/11; 1764/11), potrà formarsi tutte le volte in cui la causa relativa alla risoluzione sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l'affermazione della validità del contratto.

5)  Discende da quanto esposto l'accoglimento del ricorso nei limiti suddetti, con enunciazione del seguente principio: Il giudice di merito ha il potere di rilevare, dai fatti allegati e provati o emergenti ex actis, ogni forma di nullità non soggetta a regime speciale e, provocato il contraddicono sulla questione, deve rigettare la domanda di risoluzione, volta ad invocare la forza del contratto. Pronuncerà con efficacia idonea al giudicato sulla questione di nullità ove, anche a seguito di rimessione in termini, sia stata proposta la relativa domanda. Nell'uno e nell'altro caso dovrà disporre, se richiesto, le restituzioni. La sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Venezia, che provvedere anche in ordine alle spese di questo grado di giudizio.

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Avvocato, Foro di Napoli, specializzazione Sspl conseguita presso l'Università “Federico II”; Mediatore professionista; Autore di numerose pubblicazioni in materia di diritti reali, obbligazioni, contratti, successioni. E' possibile contattarlo scrivendo a diritto@fanpage.it.
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