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La decadenza dell’azione risarcitoria nel processo amministrativo: Corte Costituzionale del 12.12.2012 n. 280

La sentenza della Corte Costituzionale è interessante, non per l’esito del giudizio (di inammissibilità), ma per il quadro che fornisce sul termine decadenziale dell’azione di risarcimento dei danni nel processo amministrativo e per la descrizione dei poteri del giudice nell’intepretazione della domanda processuale.
A cura di Paolo Giuliano
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Cassazione - Inaugurazione Anno Giudiziario

Corte Costituzionale

Sentenza del 12 dicembre 2012 n. 280

in G.U. n. 50 del 19 dicembre 2012

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Processo amministrativo – Previsione, in deroga al diritto comune, di un termine decadenziale per l'esercizio dell'azione risarcitoria – Asserita irragionevolezza – Asserita compressione del diritto di difesa del danneggiato – Asserita lesione del principio di effettivita' della tutela giurisdizionale – Implausibilita' della valutazione di rilevanza effettuata dal giudice rimettente – Censura di norma inconferente – Inammissibilita' della questione. – D.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 30, comma 5. – Costituzione, artt. 3, 24, 103 e 113

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente:Alfonso QUARANTA; Giudici :Franco GALLO,  Luigi  MAZZELLA,  Gaetano  SILVESTRI,  Sabino   CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe  FRIGO,   Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo  CAROSI,   Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'articolo  30, comma 5, del decreto legislativo 2 luglio 2010,  n.  104  (Attuazione dell'articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al Governo per il riordino del processo  amministrativo),  promosso  dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia,  nel  procedimento vertente tra C.G. e il Ministero della salute, con  ordinanza  del  7 settembre 2011, iscritta al n. 269  del  registro  ordinanze  2011  e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  54,  prima serie speciale, dell'anno 2011.

Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 20 novembre 2012  il  Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

Ritenuto in fatto

1.- Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo (d'ora  in  avanti,  TAR),  con  ordinanza  depositata  il  7 settembre 2011, ha sollevato – in riferimento agli  articoli  3,  24, 103  e  113  della   Costituzione   –   questione   di   legittimita' costituzionale dell'articolo 30, comma 5, del decreto  legislativo  2 luglio 2010, n. 104  (Attuazione  dell'articolo  44  della  legge  18 giugno 2009, n. 69, recante delega al Governo  per  il  riordino  del processo amministrativo).

2.- Il rimettente premette che, con  ricorso  per  esecuzione  di giudicato notificato il 25 marzo 2011, depositato  il  successivo  31 marzo,  il  prof.  C.G.  ha  chiesto  l'esecuzione   della   sentenza pronunciata dal medesimo TAR il 20 dicembre 2006, n. 4140, confermata con decisione  del  Consiglio  di  giustizia  amministrativa  per  la Regione Siciliana del 15 dicembre 2008, n. 1042.     Come il giudice a quo riferisce, il  prof.  C.G.  ha  esposto  la seguente vicenda:   egli, in data 5 aprile 2006, era stato designato  componente  del collegio         sindacale   dell'Azienda   Ospedaliera «Civico-Fatebenefratelli-M.Ascoli-DiCristina»,  quale  rappresentante del Ministero della salute;     lo stesso Ministero, con nota del 29 maggio 2006, aveva  revocato la designazione;     la revoca, impugnata dal designato,  era  stata  annullata  dalla citata sentenza del TAR, n. 4140 del  2006,  confermata  dalla  detta pronuncia del Consiglio di giustizia amministrativa  per  la  Regione siciliana;     il prof. C.G. era stato insediato quale componente  del  collegio sindacale soltanto in data 21 luglio 2007, ma  non  gli  erano  stati corrisposti i compensi relativi alla menzionata funzione, concernenti il periodo dal 16 ottobre 2006 (data d'insediamento  dell'organo)  al 31 luglio 2007.     Su tali premesse il prof.  C.G.,  con  il  ricorso  indicato,  ha chiesto che, in  esecuzione  del  giudicato  formatosi  sulle  citate sentenze di primo e di secondo grado, il Ministero  fosse  condannato al pagamento: a) della somma di  euro  11.641,05  (corrispondente  ai compensi non riscossi), oltre interessi  e  rivalutazione,  ai  sensi dell'art. 112, comma 3, del codice del  processo  amministrativo;  b) delle spese del giudizio di annullamento della revoca,  liquidati  in complessivi euro 1.500,00, mai corrisposti dall'amministrazione  (con interessi e rivalutazione).

3.- Il giudice a quo continua ad esporre che, nel processo  cosi' instaurato, il Ministero della salute si e' costituito, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o  improcedibile  sulla  base delle seguenti argomentazioni:  1)  l'Amministrazione  ha  pienamente ottemperato  alla  sentenza  che  ha  annullato   la   revoca   della designazione, provvedendo ad immettere il ricorrente  nelle  relative funzioni; 2) per conseguenza, non vi sarebbe materia per il  giudizio di ottemperanza, in quanto il ricorrente in realta'  non  lamenta  la mancata esecuzione del  giudicato  di  annullamento,  ma  domanda  il risarcimento per  equivalente  monetario  del  danno  da  illegittimo esercizio della funzione; 3) l'art. 112, comma 3, cod.  proc.  amm.vo non  sarebbe  invocabile,  in  quanto  nella   fattispecie   non   si discuterebbe di un danno da mancata  esecuzione  o  da  violazione  o elusione del giudicato  (dal  momento  che  il  ricorrente  e'  stato reintegrato  nella  funzione   addirittura   prima   dell'intervenuta formazione del giudicato di annullamento, conseguente  alla  sentenza di secondo grado, e quindi gia' in sede di esecuzione della  sentenza di primo grado, gravata, ma non sospesa);  4)  il  quarto  comma  del citato art. 112, in astratto invocabile, sarebbe  pero'  in  concreto rimedio non percorribile, stante la proposizione della domanda ben al di la' della scadenza del termine decadenziale di  120  giorni  dalla formazione del giudicato di  annullamento,  stabilito  dall'art.  30, comma 5, del codice del processo amministrativo, richiamato dal comma 4, dell'art. 112.

4.- La causa e' stata  riservata  per  la  decisione  all'udienza camerale del 5 luglio 2011.

5.- Tanto premesso, il TAR, «in  punto  di  qualificazione  della domanda e di conseguente  individuazione  del  suo  regime»,  osserva «come  la   prospettazione   posta   a   fondamento   della   memoria dell'Amministrazione sia pienamente condivisibile».     Invero, se si eccettua «la parte (del tutto  marginale)  relativa al mancato pagamento delle spese  del  processo  di  cognizione,  che inerisce ad un profilo di mancata esecuzione del giudicato  formatosi all'esito di tale giudizio, la domanda proposta  con  il  ricorso  in esame non attiene propriamente ne' alla esecuzione del  giudicato  di annullamento, ne' ad un danno da mancata esecuzione del giudicato».     Ad avviso del giudice a quo, la statuizione caducatoria contenuta nella sentenza resa all'esito del giudizio di primo grado, confermata in appello, risulterebbe eseguita  mediante  attuazione  dell'effetto ripristinatorio.  Infatti,   l'attuale   ricorrente   sarebbe   stato reintegrato nella funzione nel corso del giudizio di appello, sicche' il detto giudicato di annullamento sarebbe  stato  gia'  eseguito  in relazione a tutti i suoi effetti.     Pertanto, si sarebbe fuori dall'ambito applicativo dell'art. 112, comma 3, cod. proc. amm.vo. In questi  casi,  l'effetto  conformativo del giudicato di  annullamento,  e  quello  ripristinatorio,  non  si spingerebbero «al punto  da  imporre  all'amministrazione,  oltre  al reintegro, anche la corresponsione degli emolumenti economici per  la durata dell'efficacia del provvedimento annullato (nel qual  caso  la pretesa  sarebbe  azionabile  in  sede  esecutiva  entro  il  termine decennale consentito dall'actio iudicati): tale  adempimento  attiene alla  refusione  di  danno  da  provvedimento   illegittimo   e   non costituisce effetto naturale del giudicato di annullamento (anzi,  e' proprio  la  non  riparabilita'  di  tale  pregiudizio  mediante   la rimozione del provvedimento lesivo a rendere  necessario  il  ricorso alla  tecnica  di  tutela   complementare   a   quella   caducatoria, consistente nel ripristino per equivalente monetario delle situazioni lese)».     Secondo il TAR, il ricorrente chiederebbe, in realta', proprio il risarcimento   del   danno   patrimoniale    subito    per    effetto dell'emanazione di un provvedimento amministrativo  (poi  dichiarato) illegittimo, per il periodo  in  cui  detto  provvedimento  ha  avuto esecuzione. Tale fattispecie, inerente ad un  danno  non  risarcibile ne' risarcito (per ragioni diacroniche) mediante la  mera  esecuzione del  giudicato  di  annullamento,  si   inquadrerebbe   perfettamente nell'ambito precettivo dell'art. 112, comma 4, cod. proc. amm.vo, che cosi' dispone: «Nel processo di  ottemperanza  puo'  essere  altresi' proposta la connessa domanda risarcitoria di cui all'art.  30,  comma 5, nel termine ivi stabilito. In tal caso il giudizio di ottemperanza si  svolge  nelle  forme,  nei  modi  e  nei  termini  del   processo ordinario».     In questo quadro, il rimettente osserva che andrebbe disposta, in primo luogo, la conversione del rito, ai  sensi  dell'ultimo  periodo della norma ora  trascritta.  Tuttavia,  la  praticabilita'  di  tale soluzione (vale a  dire,  l'ammissibilita'  dell'azione  risarcitoria mediante conversione del rito) sarebbe subordinata alla verifica  del rispetto del termine decadenziale stabilito dall'art.  30,  comma  5, cod. proc. amm.vo, ai sensi del quale «Nel  caso  in  cui  sia  stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria  puo'  essere formulata nel corso del  giudizio  o,  comunque,  sino  a  centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza».     Nel caso in esame, il ricorso  risulta  notificato  il  25  marzo 2011: pertanto, il detto termine risulterebbe  superato  sia  che  si assuma come dies a quo  il  passaggio  in  giudicato  della  sentenza (coincidente  con  la  pubblicazione  della  decisione  in  grado  di appello: 15 dicembre 2008), sia che si faccia decorrere  il  medesimo termine dalla data di entrata in vigore del  processo  amministrativo (16 settembre 2010).     Invece l'azione risarcitoria sarebbe tempestiva  se,  in  assenza del termine  decadenziale  posto  dal  citato  art.  30,  essa  fosse subordinata  soltanto  al  rispetto  del  termine   quinquennale   di prescrizione. Da cio' deriverebbe la rilevanza, ai fini del decidere, della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 30, comma 5, cod.  proc.  amm.vo,  non  essendo  neppure  condivisibile  l'opzione ermeneutica  orientata  a  sostenere  che  il  termine  di  decadenza previsto dalla disposizione censurata trovi applicazione soltanto per i giudicati di annullamento formatisi dopo l'entrata  in  vigore  del codice del processo amministrativo.     Al  fine  di  mitigare  il  rigore  delle  conseguenze  derivanti dall'entrata in vigore  (16  settembre  2010)  del  nuovo  codice  in materia risarcitoria nelle fattispecie di  illecito  provvedimentale, che si pongono a cavallo di tale data, si potrebbe  ritenere  che  il dies a quo sia spostato in avanti, cioe' al momento di detta  entrata in vigore, sicche' i centoventi giorni andrebbero  a  scadere  il  14 gennaio 2011. Tuttavia, poiche' nel caso in esame il ricorso e' stato notificato il  25  marzo  2011,  «neppure  questa  possibile  opzione esegetica consente di eludere l'interrogativo di  fondo  connesso  al dubbio di legittimita' costituzionale  della  disciplina  del  citato termine decadenziale».

6.- La non manifesta infondatezza della questione deriverebbe, ad avviso del giudice a quo, dalla irragionevole compressione, ad  opera della norma censurata, del diritto di difesa in giudizio della  parte che ha subito il danno, con violazione degli artt. 3, 24, 103  e  113 Cost.     Richiamato il disposto dell'art. 30, commi  3  e  5,  cod.  proc. amm.vo (il comma 5 «oggetto  specifico  del  dubbio  di  legittimita' costituzionale con riferimento alla fattispecie dedotta nel  presente giudizio»), il TAR si  sofferma  sulla  ratio  posta  alla  base  dei termini di decadenza previsti in  materia  di  annullamento  di  atti giuridici emanati da poteri  pubblici  e  da  soggetti  privati:  «si tratta dell'esigenza di certezza del  diritto  e  di  stabilita'  dei rapporti giuridici, connessa al rilievo che l'atto pone un assetto di interessi rilevante sul piano superindividuale». Il bilanciamento tra il   diritto   degli   interessati   ad   un   sollecito    sindacato giurisdizionale sull'atto e l'interesse a definire in modo  del  pari sollecito  la  relativa  vicenda  consentirebbe  d'individuare  nella previsione di un  termine  d'impugnazione  a  pena  di  decadenza  un soddisfacente punto di equilibrio del sistema, «purche'  il  relativo termine  sia  ragionevole  e  non  renda   eccessivamente   difficile l'esercizio del diritto».     L'azione risarcitoria, gia' sul piano strutturale, si porrebbe al di fuori di questa problematica: l'esposizione del debitore, pubblico o  privato,  alla  domanda  di  risarcimento  non  inciderebbe  sulla dinamica  dei  rapporti  giuridici  di  cui  lo  stesso  soggetto  e' titolare, ne' sulla certezza delle situazioni e posizioni  giuridiche correlate,  rilevando  soltanto  sul   piano   della   reintegrazione patrimoniale dello spostamento di ricchezza conseguente all'illecito.     Se la discrezionalita' legislativa avesse inteso porre un  limite temporale all'esercizio dell'azione risarcitoria, compatibile con  la natura del rimedio, avrebbe potuto ragionevolmente  farlo  attraverso l'individuazione  di  un  congruo  termine  prescrizionale  (in  tesi diverso da quello stabilito dal  diritto  comune,  ove  sussista  una congrua e ragionevole giustificazione per tale diversita').     Infatti, un ininterrotto e coerente orientamento gia'  sul  piano istituzionale chiarirebbe che «mentre la prescrizione ha per  oggetto un rapporto (azione o diritto sostanziale) che per effetto di essa si estingue, la decadenza ha per oggetto un atto che per effetto di essa non  puo'  piu'  essere  compiuto».  La  disciplina  dell'azione   di risarcimento del danno, dunque, sarebbe «ragionevolmente  compatibile con la prima e non con la seconda»     Inoltre, ancor piu' rilevante sarebbe il rilievo che,  sul  piano della teoria generale del  diritto,  «la  differenza  strutturale  ed effettuale fra prescrizione  e  decadenza  denota  una  precisa  –  e diversa – connotazione funzionale dei  due  istituti,  cosi'  da  non consentirne  (se  non   violando   il   canone   di   ragionevolezza) un'applicazione indifferenziata».     Il rimettente richiama  il  principio  secondo  cui,  «mentre  la prescrizione e' in qualche modo legata all'inerzia del  titolare  del diritto, la  decadenza  esprimerebbe  "un'esigenza  di  certezza  del diritto cosi' categorica da essere tutelata  indipendentemente  dalla possibilita' di agire del soggetto interessato"».     Tuttavia,  in  materia  di  risarcimento  del  danno  una  simile esigenza di certezza non sembrerebbe affatto sussistente, tanto  piu' in  ipotesi,  come  quella  in  esame,  di  azione  risarcitoria  non autonoma,   ma   conseguente   alla   proposizione   dell'azione   di annullamento del provvedimento lesivo.     Uno schema  logico  di  utile  riferimento  si  troverebbe  nella disciplina posta dall'art. 1495 del  codice  civile,  in  materia  di risarcimento dei danni per vizi  della  cosa  venduta:  la'  dove  la denunzia del vizio deve  avvenire  entro  un  brevissimo  termine  di decadenza (correlato all'esigenza di certezza dei  traffici),  mentre la successiva azione risarcitoria,  subordinata  alla  tempestiva  (e pregiudiziale) denunzia, ma di per se'  ormai  estranea  all'esigenza posta alla base del termine decadenziale, soggiace  coerentemente  ad un termine di prescrizione annuale.     La  situazione  sarebbe  «strutturalmente   identica   a   quella dell'illecito da atto della pubblica amministrazione, nell'ipotesi  – qui ricorrente – in cui l'azione  risarcitoria  sia  preceduta  dalla pregiudiziale  impugnazione  della   statuizione   lesiva:   con   la significativa differenza, tuttavia, che il termine  decadenziale  per impugnazione del provvedimento e' giustificato dalla funzione cui  lo stesso provvedimento assolve, mentre, diversamente dalla  sistematica del codice civile, la successiva azione risarcitoria  e'  nel  codice del  processo  amministrativo  anch'essa  soggetta  ad   un   termine decadenziale, peraltro infrannuale  (con  significativa  compressione del diritto di difesa del danneggiato,  in  assenza  di  un  reale  e giustificato interesse antagonista)».     Nel caso di azione risarcitoria autonomamente proposta (art.  30, comma 1, cod. proc. amm.vo) l'accertamento, sia pure  incidentale  e, quindi, senza effetti sostanziali sul  rapporto,  dell'illegittimita' del  provvedimento  lesivo  potrebbe,  in   tesi,   giustificare   la previsione di tale termine, mentre la definitiva  certezza  giuridica prodotta  sul  rapporto  dal  giudicato   priverebbe   di   qualsiasi giustificazione razionale la previsione di un brevissimo  termine  di decadenza per la proposizione dell'azione risarcitoria.     Dopo aver riassunto i contributi  critici  mossi  dalla  dottrina alla soluzione dettata dalla norma oggetto di censura, il  rimettente osserva che, a parte ogni considerazione «sulla  effettiva  eziologia storico-giuridica del regime censurato», esso sarebbe compressivo, in modo irragionevole e ingiustificato, del diritto  del  danneggiato  a richiedere il risarcimento del danno.     Il profilo di irragionevolezza, che vizierebbe la disposizione in esame, sarebbe attinente, quindi, sia alla previsione di  un  termine stabilito  a  pena  di  decadenza,  al  di  fuori   dei   presupposti legittimanti  una  cosi'  incisiva  compressione  dell'esercizio  del diritto, sia nella concreta fissazione di tale termine in  centoventi giorni.     Inoltre,  mancherebbe  un   tertium   comparationis,   idoneo   a giustificare l'introduzione di una simile disciplina.     La relazione al codice del processo amministrativo afferma che il detto termine si giustificherebbe «sul presupposto che la  previsione di termini decadenziali non e'  estranea  alla  tutela  risarcitoria, vieppiu' a fronte  di  evidenti  esigenze  di  stabilizzazione  delle vicende  che  coinvolgono  la  pubblica  amministrazione».  Tuttavia, quanto alla prima parte dell'affermazione, non sarebbe  dato  trovare riscontri alla stessa, se  non  in  riferimento  al  diverso  profilo dell'esistenza, nell'ambito della  complessa  disciplina  dei  rimedi contro l'illecito, di  termini  decadenziali  relativi  ad  attivita' propedeutiche alla proposizione dell'azione di danno,  ma  da  questa distinte sul piano strutturale e funzionale (cio' che,  nel  processo amministrativo,  sarebbe  garantito  dal  termine  per  la  sollecita impugnazione del provvedimento lesivo,  e,  nell'esempio  tratto  dal diritto civile relativo alla garanzia per vizi  della  cosa  venduta, dalla tempestiva denuncia della scoperta del vizio).     Quanto alla seconda parte dell'affermazione stessa, se  le  dette esigenze di stabilizzazione delle vicende  coinvolgenti  la  pubblica amministrazione possono avere qualche rilievo  oltre  la  prospettiva meramente caducatoria  (il  che  sarebbe  tradizionalmente  escluso), cio', al piu', sarebbe  riscontrabile  nell'ipotesi  di  proposizione dell'azione risarcitoria in via autonoma, con  contestuale  sindacato incidentale circa la legittimita' del provvedimento  lesivo,  ma  non nell'ipotesi (qui ricorrente) in cui detto sindacato sia  stato  gia' compiuto con efficacia di giudicato.

7.- La violazione  degli  artt.  24,  103  e  113  Cost.  sarebbe configurabile anche per altra via.     Dopo la sentenza n. 204  del  2004  della  Corte  costituzionale, sarebbe   opinione   comune   che   il   rimedio   risarcitorio   sia inscindibilmente   legato   a   quello   caducatorio:    la    tutela costituzionale dell'interesse legittimo sarebbe soddisfatta  soltanto se  il  titolare   possa   chiedere,   oltre   all'annullamento   del provvedimento lesivo, il risarcimento per equivalente del danno.     L'azione di danno, dunque, sarebbe costituzionalmente necessaria, come potrebbe desumersi anche dalla sentenza di questa Corte  n.  191 del 2006. Tuttavia, la concentrazione dei rimedi in capo  al  giudice amministrativo, funzionale alla contrazione  dei  tempi  processuali, non  potrebbe  avvenire  in  condizioni  di   accesso   alla   tutela assolutamente (e senza ragione) restrittiva,  perche'  in  tal  guisa risulterebbe  contraddetta  la  stessa  previsione  dello   strumento risarcitorio accanto a quello  caducatorio,  nel  sistema  di  tutela dell'interesse  legittimo.  In  altre  parole,  sarebbe  contraddetta l'esigenza di pienezza ed effettivita' della tutela.     Invero,   la   richiamata   giurisprudenza   costituzionale    e' intervenuta in presenza di una  disciplina  dell'accesso  al  rimedio risarcitorio nei confronti della  pubblica  amministrazione  regolata dal diritto  comune:  dal  che  discenderebbe  il  quesito  circa  la perdurante  attualita'  di  quelle  considerazioni   «in   punto   di conformita'  allo  standard  di  tutela  posto  dall'art.  24   della Costituzione, alla luce della disciplina introdotta  dal  codice  del processo  amministrativo,  e  in   particolare   della   disposizione censurata».     In questo quadro, sarebbe estranea alla prospettazione del  vizio di legittimita'  costituzionale  la  qualificazione,  in  termini  di diritto  soggettivo  o  di  interesse  legittimo,  della   situazione giuridica soggettiva del danneggiato, che domanda il risarcimento dei danno da illegittimo esercizio della funzione amministrativa.

8.- Il Presidente del Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e difeso dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'  intervenuto  nel giudizio di legittimita' costituzionale con  atto  depositato  il  17 gennaio 2012, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, manifestamente infondata.     Sotto  un  primo  profilo,   la   difesa   dello   Stato   adduce l'inammissibilita' della questione per difetto di  rilevanza.  A  suo avviso il rimettente avrebbe violato il principio  processuale  della corrispondenza tra chiesto e pronunciato perche', al fine di ritenere la rilevanza  della  questione  di  legittimita'  costituzionale  nei confronti di norma  mai  invocata  dalla  parte  ricorrente,  avrebbe dichiarato di dover procedere a nuova qualificazione della domanda da quest'ultima parte azionata, incorrendo pero' in un evidente vizio di ultrapetizione,  e  spingendosi  a  modificare  il   petitum,   cosi' ipotizzando una «lite finta»,  ovvero  una  lite  diversa  da  quella prospettata.     In  particolare,  andrebbe  posto  in  evidenza  che,  per  poter denunciare la norma ritenuta non conforme a Costituzione, il TAR  per la Sicilia, pur dando atto sia della  non  fondatezza  della  domanda volta  all'esecuzione  del   giudicato,   sia   dell'inapplicabilita' dell'art. 112, comma 3, cod. proc. amm.vo  (invocato  dal  ricorrente per richiedere il  risarcimento  dei  danni),  aveva  affermato,  con improprio esercizio del potere di qualificazione, che la  fattispecie al suo  esame  si  inquadrava  perfettamente  nell'ambito  precettivo dell'art. 112, comma 4, cod. proc. amm.vo.     Sulla  base  di  tale  norma  avrebbe  dovuto  far   luogo   alla conversione del rito, cui pero' era di ostacolo il disposto dell'art. 30, comma 5, cod. proc. amm.vo, il quale  stabilisce  il  termine  di decadenza di centoventi  giorni  dal  passaggio  in  giudicato  della sentenza di annullamento per dare ingresso alla domanda risarcitoria, termine nella specie decorso. Cosi' il Tribunale  amministrativo  era pervenuto a sostenere la rilevanza della  questione  di  legittimita' costituzionale, relativa al citato art. 30, comma 5,  del  d.lgs.  n. 104 del 2010.     Dopo avere ricostruito la  fattispecie  all'esame  del  collegio, l'Avvocatura generale dello Stato rimarca che  la  domanda  formulata dal ricorrente davanti al TAR  era  diretta  ad  ottenere,  ai  sensi dell'art. 112, comma 3, del codice, la condanna del  Ministero  della salute al pagamento di una somma di denaro, a titolo di  risarcimento del danno imputabile «al ritardo nella esecuzione o/e violazione  o/e inosservanza» del giudicato formatosi  sulla  sentenza  n.  4140  del 2006, emessa dal Tribunale amministrativo di Palermo.     Tale vizio,  ad  avviso  dell'interveniente,  si  tradurrebbe  in evidente irrilevanza della questione posta in  sede  di  giudizio  di legittimita'  costituzionale,  in  quanto  la  norma  denunciata  non sarebbe  applicabile,  perche'  estranea  al  petitum  azionato   dal ricorrente medesimo.     Sotto altro profilo, la censura del giudice a quo si  rivelerebbe inammissibile, perche' il rimettente non potrebbe affidare  a  questa Corte  l'individuazione  in  concreto  di  un  diverso  termine   per l'esercizio di un diritto  o  un'azione,  senza  indicarlo.  Infatti, cosi' facendo, solleciterebbe l'esercizio di un potere  discrezionale riservato al legislatore.     Infine,  omettendo  di  formulare  un   petitum   specifico,   si lascerebbe indeterminato il possibile  intervento  della  Corte:  «In tali circostanze l'eventuale accoglimento della questione  sfocerebbe in  una  pronuncia  additiva  a  contenuto   non   costituzionalmente obbligato,  la  quale  presupporrebbe  l'esercizio   di   valutazioni discrezionali, che esulano dalle funzioni del  Giudice  delle  leggi» (e' richiamata l'ordinanza n. 233 del 2007).     Nel merito, la difesa dello Stato, dopo aver descritto il  quadro normativo  di  riferimento,  ritiene   che   la   questione   sarebbe manifestamente infondata, in quanto il termine di decadenza  previsto per  l'esercizio  dell'azione   risarcitoria   (sia   autonoma,   sia conseguente  alla  pronuncia  di  annullamento)  sarebbe  del   tutto congruo.     In primo luogo, la previsione di tale  termine  non  sarebbe  una novita'  nell'ambito  della  giustizia  amministrativa.  Infatti,  si tratterebbe  del  doppio  di   quello   previsto   per   il   ricorso giurisdizionale  amministrativo;  inoltre,  esso  sarebbe  analogo  a quello stabilito per il ricorso straordinario al Capo dello Stato.     Ad avviso della difesa dello Stato, la ratio sottesa  all'opzione legislativa  si  fonderebbe  su  un  comprensibile  compromesso   tra superamento   della   cosiddetta   pregiudiziale   amministrativa   e necessita' della finanza pubblica. Tale  intenzione  del  legislatore emergerebbe con evidenza dall'esame delle linee guida indicate  nella relazione di  accompagnamento  della  bozza  di  decreto  legislativo inviata alle  Commissioni  parlamentari,  la  quale,  ricostruendo  i tratti  essenziali  di  tale  scelta,  afferma  tra  l'altro  che  la previsione di termini  di  decadenza  non  e'  estranea  alla  tutela risarcitoria,  ancor  di  piu'  a  fronte  di  evidenti  esigenze  di stabilizzazione    delle    vicende    coinvolgenti    la    pubblica amministrazione.     Infine, la difesa dello Stato richiama l'insegnamento del giudice comunitario, che ha ritenuto ammissibile l'azione risarcitoria in via autonoma,  pero'  ridimensionandone  la  portata  in   concreto   con l'imposizione al giudice di vagliare nel merito l'incidenza  che  una corretta e tempestiva iniziativa  rimediale  avrebbe  potuto  sortire sotto il profilo della riduzione del pregiudizio (Corte di  giustizia dell'Unione  europea,  sentenza  del  14  febbraio  1989,  in   causa C-346/87).     Pertanto,  in  ambito  europeo   sarebbe   fortemente   avvertita l'esigenza di evitare che  la  validita'  degli  atti  amministrativi comunitari e la certezza dei sottostanti assetti d'interessi  possano essere messe in discussione al di fuori di un termine di decadenza.     Anche la Corte di cassazione, sezioni unite civili, con  sentenza del  28  dicembre  2008,  n.  30254,  ha  affermato  che   e'   nella disponibilita'  del  legislatore   disciplinare   la   tutela   delle situazioni  giuridiche  soggettive,  assoggettando   a   termini   di decadenza l'esercizio dell'azione, come accade in materia  societaria per il risarcimento del danno derivante da una  delibera  assembleare che il socio non e' legittimato ad impugnare.     Peraltro, sarebbe consolidato  l'orientamento  di  questa  Corte, secondo cui l'art. 24 Cost. non esige che la  tutela  dei  diritti  e interessi sia regolata dal legislatore ordinario con  uniformita'  di requisiti ed effetti, ne' vieta che l'esercizio di  tale  tutela  sia sottoposto a termini di decadenza o di prescrizione,  nei  limiti  in cui tale regolamentazione non risulti manifestamente irragionevole  o non imponga oneri tali  da  compromettere  in  modo  irreparabile  la tutela stessa (sono richiamate le sentenze n. 210 del  1998,  n.  461 del 1997, n. 406 del 1993 e n. 77 del 1974). Inoltre, l'interveniente osserva che il termine di quattro mesi non  appare  tale  da  rendere oltremodo difficoltosa la tutela giurisdizionale.

Considerato in diritto

1.- Il Tribunale amministrativo regionale per la  Sicilia  (d'ora in avanti,  TAR),  sede  di  Palermo,  con  l'ordinanza  indicata  in epigrafe, dubita – in riferimento agli articoli  3,  24,  103  e  113 della Costituzione – della legittimita' costituzionale  dell'articolo 30,  comma  5,  del  decreto  legislativo  2  luglio  2010,  n.   104 (Attuazione dell'articolo 44 della  legge  18  giugno  2009,  n.  69, recante  delega   al   Governo   per   il   riordino   del   processo amministrativo).     Ad  avviso  del  rimettente,  la  norma  censurata  violerebbe  i parametri costituzionali sopra indicati, in quanto:     a) posto che alla base dei  termini  di  decadenza,  previsti  in materia di annullamento di atti giuridici emanati da poteri  pubblici e da soggetti privati, vi e' l'esigenza di certezza del diritto e  di stabilita' dei rapporti giuridici (connessa  al  rilievo  che  l'atto esprime un assetto d'interessi rilevante sul piano superindividuale), non sarebbe ragionevole prevedere un termine  a  pena  di  decadenza, anziche' un congruo termine di prescrizione – anche diverso da quello stabilito  dal  diritto  comune   (ove   sussista   una   ragionevole giustificazione  per   la   differenziazione)   –   per   l'esercizio dell'azione risarcitoria. Cio'  perche'  l'esposizione  del  debitore alla domanda di risarcimento non inciderebbe sui  rapporti  giuridici di cui lo stesso soggetto  e'  titolare,  ne'  sulla  certezza  delle situazioni e posizioni giuridiche correlate, rilevando  soltanto  sul piano della reintegrazione patrimoniale conseguente all'illecito;     b) l'ipotesi in esame, in cui l'azione risarcitoria e'  preceduta dalla   pregiudiziale   impugnazione   del   provvedimento    lesivo, configurerebbe una situazione «strutturalmente identica» a quella  di cui all'art. 1495 del codice civile (in tale fattispecie la  denunzia del vizio deve avvenire entro un  brevissimo  termine  di  decadenza, correlato all'esigenza di certezza dei traffici giuridici, mentre  la successiva  azione  risarcitoria,  subordinata  alla   tempestiva   e pregiudiziale denuncia, soggiace al termine  di  prescrizione  di  un anno), ma, diversamente da quanto previsto in tale  caso,  troverebbe nella previsione del termine decadenziale per l'esercizio dell'azione risarcitoria una ingiustificata compressione del  diritto  di  difesa del danneggiato;     c)  mentre   nell'ipotesi   di   azione   risarcitoria   proposta autonomamente, ai sensi dell'art. 30, comma  1,  cod.  proc.  amm.vo, l'accertamento – meramente incidentale  e,  pertanto,  senza  effetti sostanziali sul rapporto –  della  illegittimita'  del  provvedimento lesivo potrebbe  giustificare  la  previsione  di  tale  termine,  la definitiva  certezza  giuridica  prodotta  sul  rapporto  stesso  dal passaggio in giudicato della sentenza, che annulla il  provvedimento, priverebbe  di  giustificazione  razionale  la   previsione   di   un brevissimo termine  di  decadenza  per  la  proposizione  dell'azione risarcitoria, incidente  unicamente  sul  profilo  della  regolazione patrimoniale delle conseguenze dell'illecito;     d) la norma impugnata sarebbe irragionevole sia  perche'  prevede un termine di decadenza,  sia  perche'  fissa  tale  termine  in  120 giorni;     e) non esistendo un tertium comparationis idoneo  a  giustificare l'introduzione di una  simile  disciplina,  la  disposizione  de  qua presenterebbe un ulteriore profilo di irragionevolezza;     f)  la  previsione  del  termine  decadenziale  per   l'esercizio dell'azione risarcitoria presupporrebbe un'esigenza di certezza  tale da  implicare  una  compressione  significativa   del   diritto   del danneggiato di azionare il rimedio, compressione  non  giustificabile «tanto piu' nell'ipotesi  di  azione  risarcitoria  non  autonoma  ma conseguente  alla  proposizione  dell'azione  di   annullamento   del provvedimento lesivo»;     g) l'introduzione del termine di decadenza, in deroga al  diritto comune, comprimerebbe significativamente  le  condizioni  di  accesso alla tutela risarcitoria e  si  porrebbe  in  contraddizione  con  la finalita'  stessa  della  previsione  dello  strumento   risarcitorio accanto a quello caducatorio nel  sistema  di  tutela  dell'interesse legittimo, non realizzando l'esigenza di pienezza e  di  effettivita' della tutela stessa, principi affermati  dalla  Corte  costituzionale con le sentenze n. 191 del 2006 e n. 204 del 2004, in presenza di una disciplina dell'accesso al rimedio risarcitorio nei  confronti  della pubblica amministrazione regolata dal diritto comune;     h) qualunque sia la situazione soggettiva (diritto  soggettivo  o interesse legittimo) posta a fondamento della domanda di risarcimento del danno da illegittimo  esercizio  dell'azione  amministrativa,  la previsione del termine di decadenza non sarebbe ragionevole: in  caso di diritto soggettivo, non troverebbe ragionevole giustificazione una disciplina diversa da  quella  stabilita,  per  ogni  diritto,  dalla clausola   generale   di   responsabilita'   civile   (la    pubblica amministrazione sarebbe un debitore la  cui  posizione  in  nulla  si differenzia da quella dell'obbligato ex delicto); in caso d'interesse legittimo,  la  natura  complementare  dei  rimedi,   evocata   dalla giurisprudenza  costituzionale,  «ha  un  senso  se  si  mantiene  la diversita' strutturale degli stessi e delle  corrispondenti  tecniche di tutela: se invece si assimila, quanto alle condizioni di  accesso, quello risarcitorio a quello  caducatorio,  la  complementarieta'  si riduce ad una  astratta  petizione  di  principio,  risolvendosi,  in concreto, la tutela dell'interesse legittimo nella sola  possibilita' di contestare entro un breve termine di decadenza la legittimita' del provvedimento (a fini caducatori, ovvero a fini risarcitori)».

2.- La questione e' inammissibile.

2.1.- Si deve premettere che, in linea di principio, il  giudizio sulla rilevanza  di  una  questione  di  legittimita'  costituzionale spetta al giudice a quo.  Questa  Corte  deve  soltanto  svolgere  un controllo di plausibilita' in ordine al percorso argomentativo e alla valutazione gia' compiuti dal detto giudice; e, nel caso  di  specie, la conclusione cui il rimettente e' pervenuto sul punto si rivela non plausibile.     Per dare conto di tale affermazione e' necessario ripercorrere  i momenti salienti della vicenda, nel cui ambito la questione e'  stata sollevata, sulla base delle risultanze dell'ordinanza di rimessione.     Con ricorso per esecuzione di giudicato, diretto al  TAR  per  la Sicilia e notificato il 25 marzo 2011, la parte ricorrente ha chiesto che fosse eseguita la sentenza pronunciata dal medesimo  TAR  del  20 dicembre 2006, n. 4140, confermata con  decisione  del  Consiglio  di giustizia amministrativa per la Regione  siciliana  del  15  dicembre 2008, n. 1042.     A sostegno della domanda il ricorrente ha esposto  quanto  segue: il  5  aprile  2006  era  stato  designato  componente  del  collegio sindacale di un'azienda ospedaliera come rappresentante del Ministero della salute; quest'ultimo,  con  nota  del  29  maggio  2006,  aveva revocato la designazione;     l'atto di revoca, impugnato dall'interessato, era stato annullato con la citata sentenza del TAR adito n. 4140 del 2006, confermata  in sede di appello;     il ricorrente era stato insediato come  componente  del  collegio sindacale in data 21 luglio 2007.     Con il ricorso introduttivo del giudizio di ottemperanza la parte privata ha lamentato di non aver riscosso i  compensi  relativi  alla funzione di componente del collegio sindacale  dal  16  ottobre  2006 (data d'insediamento dell'organo) al 31 luglio 2007.     Pertanto, ha chiesto che, in esecuzione del  giudicato  formatosi sulle richiamate sentenze di primo e di secondo grado,  il  Ministero della salute sia condannato al pagamento:  a)  della  somma  di  euro 11.641,05  (corrispondenti  agli  emolumenti  non  riscossi),   oltre interessi e rivalutazione, ai sensi  dell'art.  112,  comma  3,  cod. proc. amm.vo; b) delle spese del giudizio di annullamento,  liquidate in complessivi euro 1.500,00.     Nel giudizio cosi' promosso si e' costituito il  Ministero  della salute, rappresentato e  difeso  dall'Avvocatura  distrettuale  dello Stato, chiedendo  che  il  ricorso  sia  dichiarato  inammissibile  o improcedibile sulla base dei seguenti argomenti (come  riassunti  dal rimettente):  l'amministrazione  ha   pienamente   ottemperato   alla sentenza che ha annullato la revoca della  designazione,  provvedendo ad immettere l'interessato  nella  funzione;  pertanto,  non  vi  era materia di giudizio di ottemperanza, perche' il ricorrente in realta' non lamentava la mancata esecuzione del giudicato di annullamento  ma il risarcimento per equivalente del danno; l'art. 112, comma 3,  cod. proc. amm.vo non sarebbe invocabile in quanto non si  discute  di  un danno da mancata esecuzione o da violazione o elusione del  giudicato («dal momento che  l'odierno  ricorrente  e'  stato  integrato  nella funzione addirittura prima dell'intervenuta formazione del  giudicato di annullamento, conseguente alla sentenza di secondo grado, e quindi gia' in sede di esecuzione della sentenza di primo grado  gravata  ma non sospesa»); l'art. 112, comma 4, cod. proc. amm.vo,  «in  astratto invocabile», e' pero' in concreto rimedio  non  percorribile,  attesa l'avvenuta proposizione della domanda  ben  al  di  la'  del  termine decadenziale  di  centoventi  giorni  dall'avvenuta  formazione   del giudicato di annullamento, stabilito  dall'art.  30,  comma  5,  cod. proc. amm.vo, richiamato dall'art. 112, comma 4, sopra citato.     In  questo  quadro,  il  rimettente   osserva,   «in   punto   di qualificazione della domanda e di conseguente individuazione del  suo regime», come «la prospettazione posta  a  fondamento  della  memoria dell'Amministrazione sia pienamente condivisibile».     A suo avviso, la domanda proposta con il  ricorso  in  esame  non sarebbe attinente propriamente  (se  non  per  la  parte,  del  tutto marginale, relativa al mancato pagamento delle spese processuali) ne' alla esecuzione del giudicato di annullamento, ne'  ad  un  danno  da mancata esecuzione di giudicato. Infatti, la statuizione  caducatoria risulterebbe    eseguita     mediante     attuazione     dell'effetto ripristinatorio, poiche' l'interessato  e'  stato  reintegrato  nella funzione nel corso del giudizio di appello. Si sarebbe fuori, dunque, dall'ambito applicativo dell'art.  112,  cod.  proc.  amm.vo,  mentre «l'effetto conformativo  del  giudicato  di  annullamento,  e  quello ripristinatorio, non si spingono in questi casi, al punto da  imporre all'amministrazione, oltre  al  reintegro,  anche  la  corresponsione degli  emolumenti  economici  per  la   durata   dell'efficacia   del provvedimento annullato», in quanto «tale  adempimento  attiene  alla refusione di danno da provvedimento  illegittimo  e  non  costituisce effetto naturale del giudicato di annullamento».     Invece, la fattispecie in esame, inerente «ad  un'area  di  danno non risarcita ne' risarcibile – per ragioni diacroniche – mediante la mera esecuzione  del  giudicato  di  annullamento  del  provvedimento lesivo, si inquadra perfettamente  nell'ambito  precettivo  dell'art. 112,  comma  4,  cod.  proc.  amm.,  che  recita  "Nel  processo   di ottemperanza  puo'  essere  altresi'  proposta  la  connessa  domanda risarcitoria di cui all'articolo 30, comma 5, nel termine  stabilito. In tal caso il giudizio di ottemperanza si svolge  nelle  forme,  nei modi e nei termini del processo ordinario"».     A  questo  punto  il  rimettente  incontra   sul   suo   percorso argomentativo il detto termine di decadenza, in  relazione  al  quale giudica rilevante la questione  di  legittimita'  costituzionale  che solleva.     Al riguardo si deve porre in luce  che  la  difesa  dello  Stato, nell'addurre  l'inammissibilita'  per  irrilevanza  della  questione, afferma  che  il  rimettente  avrebbe  errato  nella  lettura   delle eccezioni di  parte  pubblica,  e  per  dimostrarlo  allega  all'atto d'intervento copia del  ricorso  per  ottemperanza  e  della  memoria depositata dall'Amministrazione nel giudizio a quo.     In realta', l'affermazione,  secondo  cui  il  Ministero  avrebbe asserito che il ricorrente non lamentava la  mancata  esecuzione  del giudicato  di  annullamento,  ma  domandava   il   risarcimento   per equivalente monetario da illegittimo esercizio della funzione, non e' esatta; e neppure e' esatto che esso abbia ritenuto l'art. 112, comma 4, cod. proc. amm.vo, «in astratto invocabile», rimedio  in  concreto non percorribile per l'avvenuto  decorso  del  termine  di  decadenza stabilito dall'art. 30, comma 5, cod. proc. amm.vo.     In effetti, come si evince dalla memoria allegata  in  copia,  il resistente nel giudizio di primo grado, dopo  aver  rilevato  che  la parte privata, con il ricorso, «chiede che sia data piena  esecuzione al giudicato formatosi sulla sentenza n. 4140/06 del TAR Sicilia, con condanna del Ministero,  (esclusivamente)  ai  sensi  dell'art.  112, comma 3, codice del  processo  amministrativo»,  al  pagamento  delle somme di cui  sopra,  ha  negato  l'applicabilita'  della  norma  ora citata,  non  essendo  in  alcun  modo  configurabile   una   mancata esecuzione, violazione o elusione del  giudicato,  stante  l'avvenuta reintegrazione della parte privata  in  seno  al  collegio  sindacale dell'azienda ospedaliera prima ancora della formazione del  giudicato stesso, su tale base eccependo  l'inammissibilita'  del  ricorso.  Il medesimo resistente, poi, ha aggiunto che  tale  atto  non  «potrebbe trovare fondamento sul successivo IV comma dell'art.  112  cit.,  che richiama il V comma del precedente art. 30»,  perche',  «a  parte  il fatto  che  tale  domanda  e'  esplicitamente  esclusa  nello  stesso ricorso», essa sarebbe comunque preclusa.     E'  palese,  dunque,  che  il  Ministero  non  ha  inteso   certo introdurre o allegare nel processo una realta'  fattuale  diversa  da quella addotta dal ricorrente.

2.2.- Tanto chiarito, come risulta dalla sequenza dei fatti sopra riassunta la parte privata nel processo a quo ha promosso un giudizio di ottemperanza, chiedendo che il TAR adito ordini al Ministero della salute «il compimento di atti necessari a dare  piena  esecuzione  al giudicato formatosi sulla sentenza n. 4140 del  2006  del  05.12.2006 emesso dal Tribunale  Amministrativo  Regionale  per  la  Sicilia  di Palermo», nonche' condanni «ex art. 112, comma 3 il  Ministero  della salute al pagamento della somma di euro 11.641,05, oltre interessi  e rivalutazione, o della somma maggiore o minore  che  sara'  stabilita dal collegio, a  titolo  di  risarcimento  del  danno  imputabile  al ritardo  nella  esecuzione  o/e  violazione  o/e  inosservanza  dello stesso».  Tale domanda e' radicata dal ricorrente nell'art. 112,  comma  3, cod.  proc.  amm.vo,  alla  stregua  del  quale   nel   giudizio   di ottemperanza «puo'  essere  proposta  anche  azione  di  condanna  al pagamento di somme a titolo di  rivalutazione  e  interessi  maturati dopo il passaggio in giudicato  della  sentenza,  nonche'  azione  di risarcimento dei danni derivanti dalla mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato» (testo vigente alla data dell'ordinanza  di rimessione, poi sostituito dall'art. 1, comma 1, lettera  cc,  n.  1, del decreto legislativo  15  novembre  2011,  n.  195,  «Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 2  luglio  2010,  n. 104, recante codice del processo amministrativo a norma dell'art. 44, comma 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69»).     Nella prospettiva del ricorrente,  dunque,  il  titolo  giuridico della pretesa risarcitoria da lui azionata  era  da  ravvisare  nella ritardata esecuzione del giudicato, sul presupposto  –  implicito  ma necessario – che nella menzionata sentenza  del  TAR  fosse  compresa anche la condanna al pagamento della somma a quel titolo richiesta.     Il giudice a quo non ha condiviso tale prospettiva.     Ha ritenuto che la domanda proposta  col  ricorso  in  esame  non fosse attinente ne' alla esecuzione del giudicato di annullamento ne' ad un danno da mancata esecuzione di giudicato. Ha  escluso  che  nel giudicato di annullamento formatosi sulla citata sentenza del TAR  (e gia'  eseguito  dall'Amministrazione)  fosse   compresa   «anche   la corresponsione   degli   emolumenti   economici   per    la    durata dell'efficacia del provvedimento  annullato»,  rimarcando  che  «tale adempimento  attiene  alla  refusione  di  danno   da   provvedimento illegittimo e non  costituisce  effetto  naturale  del  giudicato  di annullamento»,  ed  ha  ritenuto  che  la  fattispecie  «si  inquadra perfettamente nell'ambito precettivo dell'art.  112,  comma  4,  cod. proc. amm.» (norma oggi abrogata dall'art. 1, comma  1,  lettera  cc, n.2, del d.lgs. n. 195 del 2011, ma vigente all'epoca  dell'ordinanza di rimessione).   Tuttavia, cosi' operando, il TAR ha trascurato di considerare che non si  limitava  ad  una  semplice  qualificazione  giuridica  della domanda, rientrante senz'altro nei poteri  del  giudice  prescindendo dalle indicazioni di parte o dalla loro assenza, ma dava luogo ad una modifica  sostanziale  della  causa  petendi  azionata  dalla   parte privata, cosi' incorrendo nel vizio di extrapetizione  e  sostituendo la domanda proposta con una diversa, in violazione dell'art. 112  del codice  di  procedura  civile,  pacificamente  applicabile  anche  al processo amministrativo e comunque oggetto del rinvio di cui all'art. 39 del relativo codice (Nella giurisprudenza  e',  infatti,  costante l'affermazione del principio di diritto secondo cui il giudice ha  il potere-dovere di qualificare giuridicamente l'azione e di  attribuire al rapporto dedotto in giudizio un  nomen  juris  diverso  da  quello indicato dalle parti, purche' non sostituisca la domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti costitutivi o  fondandosi  su  una realta' fattuale non dedotta ne' allegata in  giudizio  dalle  parti, (ex plurimis: Corte di cassazione, sezione terza, sentenza  3  agosto 2012, n. 13945; sezione seconda, sentenza 17 luglio 2007,  n.  15925; sezione prima, sentenza 12 aprile 2006, n.  8519  e  sezione  quinta, sentenza 1° settembre 2004, n. 17610;  Consiglio  di  stato,  sezione quinta, sentenza 27 dicembre 2011, n. 3191; sezione quinta,  sentenza 17 febbraio 2010, n. 910; sezione quinta, sentenza 2  novembre  2009, n. 6713).     Sulla base dei rilievi che precedono, la valutazione di rilevanza effettuata dal giudice a quo non appare plausibile, perche'  egli  ha denunciato una norma – l'art. 30, comma 5, del d.lgs. n. 104 del 2010 – della quale non doveva fare applicazione,  in  quanto  estranea  al tema sottoposto al suo esame.     Ne deriva l'inammissibilita' della questione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara   inammissibile    la    questione    di    legittimita' costituzionale dell'articolo 30, comma 5, del decreto  legislativo  2 luglio 2010, n. 104  (Attuazione  dell'articolo  44  della  legge  18 giugno 2009, n. 69, recante delega al Governo  per  il  riordino  del processo amministrativo), sollevata – in riferimento agli articoli 3, 24, 103 e 113  della  Costituzione  –  dal  Tribunale  amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo, con  l'ordinanza  indicata in epigrafe.

Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 dicembre 2012.

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Avvocato, Foro di Napoli, specializzazione Sspl conseguita presso l'Università “Federico II”; Mediatore professionista; Autore di numerose pubblicazioni in materia di diritti reali, obbligazioni, contratti, successioni. E' possibile contattarlo scrivendo a diritto@fanpage.it.
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