Il commercio elettronico si va sempre più diffondendo, anzi, secondo alcuni è il futuro del commercio, in quanto permette dei confrontare un numero infinito di venditori e di trovare l'offerta più conveniente (e per conveniente si intende l'offerta più bassa).
Nulla di scandaloso, ma i rischi sono dientro l'angolo, infatti, oltre ai normali pericoli del commercio tradizionale, il commerio eletronico presenta ulteriori punti critici. Infatti, acquistando tramite internet l'utente finale o consumatore finale può acquistare merce scadente o con molti difetti, non verificabili al momento dell'acquisto, ma solo al momento della consegna del bene.
Questa, però, è solo una faccia della medaglia, del resto, l'utente finale o il consumatore, prima della materiale consegna della merce, non potendo visionare la merce stessa, può anche comprare merce con marchio contraffatto, in tale ipotesi, è facile passare dall'illecito civile all'illecito penale.
La Suprema Corte di Cassazione ha dovuto valutare se l'acquisto di merce con marchio contraffatto rientrasse nell'ambito di applicazione
1) dell'art. 648 codice penale (ricettazione) secondo il quale "Fuori dei casi di concorso nel reato, chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione da due ad otto anni e con la multa da euro 516 a euro 10.329.
La pena è della reclusione sino a sei anni e della multa sino a euro 516, se il fatto è di particolare tenuità.
Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando l'autore del delitto da cui il denaro o le cose provengono non è imputabile o non è punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità riferita a tale delitto."
2) oppure dell'art. 712 codice penale (reato di acquisto di cose di sospetta provenienza) secondo il quale "Chiunque, senza averne prima accertata la legittima provenienza, acquista o riceve a qualsiasi titolo cose, che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l'entità del prezzo, si abbia motivo di sospettare che provengano da reato, è punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda non inferiore a euro 10 .
Alla stessa pena soggiace chi si adopera per fare acquistare o ricevere a qualsiasi titolo alcuna delle cose suindicate, senza averne prima accertata la legittima provenienza".
3) oppure, infine, si dovesse applicare la sanzione amministrativa prevista dall'art. 1 comma 7 del decreto legge 14 marzo 2005 n. 35 "E' punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 euro fino a 7.000 euro l'acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l'entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale. In ogni caso si procede alla confisca amministrativa delle cose di cui al presente comma. Restano ferme le norme di cui al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70. Salvo che il fatto costituisca reato, qualora l'acquisto sia effettuato da un operatore commerciale o importatore o da qualunque altro soggetto diverso dall'acquirente finale, la sanzione amministrativa pecuniaria é stabilita da un minimo di 20.000 euro fino ad un milione di euro. Le sanzioni sono applicate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni. Fermo restando quanto previsto in ordine ai poteri di accertamento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria dall'articolo 13 della citata legge n. 689 del 1981, all'accertamento delle violazioni provvedono, d'ufficio o su denunzia, gli organi di polizia amministrativa».
La Cassazione penale a sezioni unite dell'8 giugno 2012 n. 22225, considerando che era imputato il c.d. "l'acquirente finale" ha scelto quest'ultima opzione, di conseguenza si sarà sottoposti solo ad una sanzione amministrativa penuniara e non ad un procedimento penale.
4. Per la soluzione della questione sottoposta a queste Sezioni Unite è necessario ripercorrere lo sviluppo delle modifiche legislative apportate alla norma di riferimento.
La norma è quella introdotta con l'art. 1, comma 7, d.l. 14 marzo 2005, n. 35, come modificato in sede di conversione dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, articolo che porta in rubrica l'indicazione «lotta alla contraffazione» e così dispone al comma 7, nel suo testo originario: «7. Salvo che il fatto costituisca reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria fino a 10.000 euro l'acquisto o l'accettazione, senza averne prima accertata la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l'entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale. La sanzione di cui al presente comma si applica anche a coloro che si adoperano per fare acquistare o ricevere a qualsiasi titolo alcuna delle cose suindicate, senza averne prima accertata la legittima provenienza. In ogni caso si procede alla confisca amministrativa delle cose di cui al presente comma. Restano ferme le norme di cui al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70» (l'ultimo periodo è stato aggiunto dalla legge di conversione).
Successivamente l'art. 2, comma 4-bis, d.l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, ha apportato modificazioni. Il testo finale, attualmente vigente, del comma 7 dell'art. 1 d.l. n. 35 del 2005 è, dunque, il seguente: «E' punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 euro fino a 7.000 euro l'acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l'entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale. In ogni caso si procede alla confisca amministrativa delle cose di cui al presente comma. Restano ferme le norme di cui al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70. Salvo che il fatto costituisca reato, qualora l'acquisto sia effettuato da un operatore commerciale o importatore o da qualunque altro soggetto diverso dall'acquirente finale, la sanzione amministrativa pecuniaria é stabilita da un minimo di 20.000 euro fino ad un milione di euro. Le sanzioni sono applicate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni. Fermo restando quanto previsto in ordine ai poteri di accertamento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria dall'articolo 13 della citata legge n. 689 del 1981, all'accertamento delle violazioni provvedono, d'ufficio o su denunzia, gli organi di polizia amministrativa».
5. Dall'esame dello sviluppo delle modifiche legislative al testo originario si desumono elementi interpretativi per chiarire il significato della disposizione attualmente vigente.
Un primo elemento è quello che concerne gli autori dell'illecito amministrativo: 1) in origine erano puniti con identica sanzione tutti coloro che effettuavano l'acquisto o la ricezione ovvero l'intermediazione all'acquisto o alla ricezione a qualsiasi titolo e per qualsiasi finalità di cose che violavano le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale; 2) successivamente si prevede una sanzione amministrativa "rafforzata" per gli operatori commerciali o importatori o, comunque, soggetti diversi dall'acquirente finale.
Un secondo elemento è quello relativo alle modalità dell'acquisto: 1) in origine qualsiasi acquisto, da chiunque effettuato, doveva essere avvenuto «senza avere prima accertata la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l'entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale»; 2) tali modalità rimangono ferme anche quando successivamente si distingue tra acquirente finale e non finale; 3) con la legge n. 99 del 2009 viene soppressa la formula «senza averne prima accertata la legittima provenienza».
Un terzo elemento di fondamentale importanza é quello relativo alla clausola di riserva: 1) in origine la formula «salvo che il fatto costituisca reato» riguardava indistintamente qualsiasi tipologia di acquisto; 2) con la legge n. 99 del 2009 la clausola di riserva viene soppressa con specifico riferimento all'acquirente finale e viene introdotta solo con riguardo agli acquisti effettuati da qualsiasi soggetto diverso dall'acquirente finale. Già quest'ultima modifica potrebbe essere sufficiente a ritenere la specialità dell'illecito amministrativo rispetto agli acquisti effettuati dall'acquirente finale sulla base del solo testo della disposizione vigente alla data di entrata in vigore della legge n. 99 del 2009, in applicazione del principio formulato dalle citate Sezioni Unite n. 1963 del 2011 (v. retro par. 3), laddove si afferma che l'art. 9 della I. 24 novembre 1981, n. 689, è diretto a «privilegiare la specialità» in tutti i casi in cui, ad una condotta penalmente sanzionata, si aggiunga, soprattutto se ciò avvenga in tempi successivi rispetto all'entrata in vigore della prima norma, una disciplina normativa che la preveda anche come violazione amministrativa, ciò che appare evidente nel caso di specie, in cui il legislatore ha manifestato chiaramente il suo intento con una mirata e selezionata eliminazione della clausola di specialità.
Se, poi, si procede, sempre in applicazione dei principi formulati dalle citate sentenze delle Sezioni Unite n. 1963 del 2011 e n. 1235 del 2011, ad un raffronto strutturale tra le fattispecie astratte, si deve rilevare, in primo luogo, che il legislatore del 2009 ha voluto delimitare l'ambito dell'illecito amministrativo speciale al soggetto agente costituito dall' "acquirente finale", mentre i reati del codice penale (artt. 648 e 712) possono essere commessi da "chiunque". L'art. 648 cod. peri. richiede che colui che commette il delitto non sia concorrente nel reato presupposto, ma è evidente che la stessa qualifica di "acquirente finale" esclude tale possibilità con riferimento alla contraffazione quale presupposto della condotta amministrativamente illecita, trattandosi di qualifica del soggetto agente che intende escludere un qualsiasi concreto apporto causale all'attività criminosa presupposta, non solo sotto forma di previo concerto o di agevolazione, ma anche di concreta istigazione che abbia determinato l'autore materiale all'azione.
In secondo luogo, il concetto di «cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l'entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale», costituisce specificazione di quello di «cose provenienti da un qualsiasi delitto» di cui all'art. 648 cod. pen.
In terzo luogo, la formula relativa alla modalità dell'acquisto che doveva avvenire «senza averne prima accertata la legittima provenienza» – che aveva fatto porre in raffronto la fattispecie in esame esclusivamente con quella dell'art. 712 cod. proc. pen., che adottava analoga formula – è stata eliminata, in tal modo evidenziandosi la possibilità di configurare l'illecito amministrativo quale che sia l'atteggiamento psicologico del soggetto agente, poiché la semplice formula «inducano a ritenere» è idonea comprendere sia iI mero sospetto che la piena consapevolezza della provenienza illecita del bene che si acquista; mentre non costituisce elemento specialistico "per aggiunta" il fine di profitto che caratterizza il delitto di ricettazione, posto che esso certamente è individuabile nei diversi profili di vantaggio che si propone l'acquirente finale di un prodotto contraffatto, sicché si tratta di un elemento che appare inerente alla fattispecie delineata, Il rapporto di specialità, pertanto, sussiste sia rispetto al delitto che alla contravvenzione del codice penale, posto che, secondo quanto dispone l'art. 3 della legge n. 689 del 1981 «nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa».
7. Come si è detto, la soluzione interpretativa che attribuisce carattere di specialità all'illecito amministrativo in esame si fonda sulla progressione modificativa del testo originario della norma dell'art. 1, comma 7, legge n. 35 del 2005, che trova la sua sistemazione finale con la legge n. 99 del 2009, entrata in vigore il 15 agosto 2009, così che si comprende come l'interpretazione offerta dalla citata sentenza delle Sezioni Unite n. 47164 del 20 dicembre 2005 (v. retro par. 2) resta superata proprio dalle citate modifiche. Del resto, la previsione di un semplice illecito amministrativo per gli acquirenti finali di prodotti contraffatti rende la normativa in esame congruente con quella relativa all'acquisto di supporti audiovisivi, fonografici o informatici o multimediali non conformi alle prescrizioni legali, in relazione ai quali la suddetta sentenza delle Sezioni Unite ha ritenuto che, a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. 9 aprile 2003, n. 68, si configuri una fattispecie penalmente rilevante a carico di coloro che effettuino l'acquisto a fine di commercializzazione, «configurandosi l'illecito amministrativo previsto dall'art. 174-ter legge n. 633 del 1941 soltanto quando l'acquisto o la ricezione siano destinati a uso esclusivamente personale». La sostituzione, nel comma 7 dell'art. 1 d.l. n. 35 del 2005, della parola "intellettuale" con quella "industriale" evidenzia il chiaro intento del legislatore di attuare proprio un parallelismo sanzionatorio tra le ipotesi di acquisto per uso personale di prodotti "provenienti" dalle violazioni dei diritti di esclusiva intellettuale e quelle di acquisto di prodotti "provenienti" dalla violazione dei diritti di proprietà industriale. La interpretazione offerta nella suddetta sentenza, invece, mantiene la sua validità per quanto concerne l'illecito amministrativo previsto nei confronti di soggetti diversi dagli acquirenti finali. Infatti, il legislatore non a caso per questi soggetti ha mantenuto la clausola «salvo che il fatto costituisca reato», sicché la nuova norma risulterebbe inapplicabile, ove non avesse un ambito di applicazione distinto da quello proprio delle fattispecie previste dal codice penale, nel senso che solo l'acquisto di cose di provenienza «altrimenti illecita», ovvero non provenienti da reato, configura l'illecito amministrativo di cui all'art. 1, comma 7, d.l. n. 35 del 2005 a carico di coloro che non sono acquirenti finali.
8, Stabilito che il complesso normativo che regola nella legislazione nazionale la materia in esame configura come illecito amministrativo la condotta dell'acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata, la parte civile ha posto il problema di una interpretazione del diritto nazionale conforme alla normativa comunitaria, quale si desume, in particolare, dalla direttiva n. 2004/48/CE sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, oppure di un rinvio alla Corte di giustizia U.E. per la interpretazione della normativa comunitaria in materia, oppure, in via ulteriormente subordinata, di una rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale della normativa in esame con riferimento agli artt. 11 e 117 Cost.
La citata direttiva, dopo avere precisato all'art. 1 che il termine «diritti di proprietà intellettuale» include i diritti di proprietà industriale, definisce all'art. 3 il suo obiettivo, che è quello di individuare «le misure, le procedure e i mezzi di ricorso» che siano «effettivi, proporzionati e dissuasivi», ravvicinando le legislazioni nazionali al fine – come si precisa nel preambolo della stessa direttiva – «di assicurare un livello elevato, equivalente ed omogeneo di protezione della proprietà intellettuale nel mercato interno». Secondo la tesi sostenuta dalla parte civile, ciò comporterebbe l'utilizzo di sanzioni penali costituendo esse un mezzo adeguato per il raggiungimento dello scopo. Nel citato preambolo, in effetti, si legge: «anche le sanzioni penali costituiscono, nei casi appropriati, un mezzo per assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale».
9. La questione in tal modo sottoposta all'attenzione di questa Corte comporta, preliminarmente, ancora prima di stabilire se essa sia fondata e rilevante, l'esame di una problematica più ampia: se sia consentito un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia U.E. perché chiarisca se la normativa comunitaria imponga nella fattispecie considerata l'applicazione di sanzioni penali ovvero alla Corte costituzionale perché stabilisca se la normativa nazionale che prevede nei casi esaminati la configurabilità di un illecito amministrativo in luogo di quello penale sia in contrasto con la normativa comunitaria, quale parametro di costituzionalità alla luce degli artt. 11 e 117 Cost.
10. La Corte di giustizia U.E. ha chiarito, con costante giurisprudenza (da ultimo, contenente anche richiami ai precedenti, 5 luglio 2007, causa C-321/05 Kofoed) che il principio della certezza del diritto osta a che le direttive possano, di per se stesse, creare obblighi in capo ai singoli; esse non possono quindi essere fatte valere in quanto tali contro i singoli dallo Stato membro, il quale ha la scelta della forma e dei mezzi di attuazione delle direttive che meglio permettono di garantire il risultato a cui mirano. Peraltro, tutte le autorità di uno Stato membro, quando applicano il diritto nazionale, sono tenute ad interpretarlo per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo delle direttive comunitarie, ma «tale obbligo di interpretazione conforme non può giungere sino al punto che una direttiva, di per se stessa e indipendentemente da una legge nazionale di trasposizione, crei obblighi per i singoli ovvero determini o aggravi la responsabilità penale di coloro che trasgrediscono le sue disposizioni» (in tali termini, sentenza sopra citata). Si tratta di un limite che deriva dai principi generali del diritto, quello della legalità della pena e quello connesso di applicazione retroattiva della pena più mite, che fanno parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e, quindi, fanno parte integrante dei principi generali del diritto comunitario, che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l'ordinamento comunitario (Corte di giustizia, Grande Sezione, 3 maggio 2005, Berlusconi e altri, cause riunite C-387/02, C-391/02, C-403/02; 16 giugno 2005, Pupino, causa C105/03). Principi dei resto, sanciti anche dall'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (da ultimo, Corte EDU, Grande Camera, 17/09/2009, Scoppola c. Italia); dall'art. 15, n. 1, del Patto internazionale sui diritti civili e politici; nonché dall'art. 49, n. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
Tali principi, pertanto, acquistano particolare rilevanza allorché si intenda far valere una norma comunitaria contenuta in una direttiva nell'ambito di procedimenti penali. Infatti, nel caso in cui i giudici del rinvio, sulla base delle soluzioni loro fornite dalla Corte di giustizia, dovessero giungere alla conclusione che le norme nazionali non soddisfano gli obblighi comunitari, ne deriverebbe che gli stessi giudici del rinvio sarebbero tenuti a disapplicare, di loro iniziativa, tali norme, senza che ne debbano chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante procedimento costituzionale.
La Corte di giustizia riconosce che «sarebbe difficile per l'Unione adempiere efficacemente alla sua missione se il principio di leale cooperazione, che implica in particolare che gli Stati membri adottino tutte le misure generali o particolari In grado di garantire l'esecuzione dei loro obblighi derivanti dal diritto dell'Unione europea, non si imponesse anche nell'ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale», e che, pertanto, applicando il diritto nazionale, il giudice, chiamato ad interpretare quest'ultimo, è tenuto a farlo per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo della normativa comunitaria, ma tale obbligo di interpretazione "conforme" «trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, ed in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività. Questi principi ostano in particolare a che il detto obbligo possa condurre a determinare o ad aggravare, sul fondamento di una decisione-quadro e indipendentemente da una legge adottata per l'attuazione di quest'ultima, la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni» (sent. Pupino, cit.). La conseguenza è che un eventuale rinvio pregiudiziale non potrebbe avere come conseguenza che una sostanziale decisione di non liquet da parte della Corte di giustizia, in quanto una normativa comunitaria «non può essere invocata in quanto tale dalle autorità di uno Stato membro nei confronti degli Imputati nell'ambito di procedimenti penali, poiché una direttiva non può avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati» (è questo il dispositivo della citata sentenza Berlusconi e altri, pronunciata con riferimento ad un caso in cui si chiedeva alla Corte di giustizia di verificare la compatibilità con il diritto comunitario delle nuove norme di cui agii artt. 2621 e 2622 cod. civ., verifica che avrebbe potuto comportare l'effetto di escludere l'applicazione del regime sanzionatorio più mite previsto dai detti articoli).
In definitiva, non è possibile che dalla disapplicazione di una norma interna per effetto del contrasto con la normativa comunitaria, sulla base del principio di preminenza del diritto comunitario, possano conseguire effetti pregiudizievoli per l'imputato. La mancata previsione come fattispecie di reato di comportamenti che ai sensi della normativa comunitaria si sarebbero dovuti considerare come penalmente illeciti, potrebbe, al più, costituire un inadempimento del legislatore nazionale rispetto ad obblighi di fonte comunitaria, ma non consente che i cittadini dello Stato inadempiente siano perseguiti penalmente per fatti considerati illeciti ai sensi della normativa comunitaria, ma non punibili o non più punibili ai sensi di quella interna.
Questa Corte, adeguandosi a tali principi, ha ritenuto, anche a Sezioni Unite, di escludere la possibilità di un rinvio pregiudiziale, quando, appunto, tale rinvio fosse stato chiesto per legittimare un'interpretazione in malam partem della norma penale interna (Sez. 5, n. 38967 dell'11/10/2005, Galliani, Rv. 232571, con riferimento all'art. 2621 cod. civ.; Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244191, che ha escluso che la disciplina in tema di confisca contenuta nella decisione-quadro del Consiglio U.E. 2005/212/GAI del 24 febbraio 2005 possa essere utilizzata per estendere la confisca per equivalente di cui all'art. 322-ter, comma primo, cod. pen. anche al profitto del reato).
13. In definitiva, deve formularsi il seguente principio di diritto: «Non può configurarsi una responsabilità penale per l'acquirente finale di cose in relazione alle quali siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale».
14. In applicazione di tale principio, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Non deve essere disposta la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa per l'applicazione delle sanzioni per l'illecito depenalizzato, poiché la depenalizzazione è successiva alla data di commissione del fatto.