La giusta durata di un processo e l'indennità per la non ragionevole durata del processo
Il periodo di tempo entro cui un procedimento giudiziario si deve concludere è influenzato da molti fattori: la complessità della causa, il numero delle parti, l'attività istruttoria, il ruolo del giudice, ecc. Questo, però, non può significare che un procedimento debba durate all'infinito, ma significa solo che, se supera un periodo di tempo ragionevole, alle parti processuali è dovuto una indennità (alias risarcimento del danno).
Il diritto alla ragionevole durata del processo è un diritto di portata universale riconosciuto anche dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (art. 6 CEDU) la quale garantisce ad ogni persona il diritto che la sua causa sia definita in un termine ragionevole. Si tratta di diritto soggettivo perfetto nei confronti dello Stato, che presuppone necessariamente l'instaurazione del rapporto processuale tra le parti del processo e il giudice.
Legge 24 marzo 2001 n. 89: c.d. Legge Pinto o c.d. Legge per la ragionevole durata del processo
Proprio per evitare, da un lato processi troppo lunghi, e dall'altro regolare (e quantificare) l'indennizzo in presenza di una durata (non) ragionevole del processo nel 2001 è stata introdotta le Legge del 24.3.2001 n. 89.
Tale legge, da un lato, individua il periodo di tempo "ragionevole" entro cui il processo si deve chiudere (tre anni in primo grado, due in appello, uno in sede di legittimità art. 2 legge 89/2001), dall'altro, quantifica l'indennizzo dovuto per l'eccessiva durata del procedimento (da 400 a 800 euro ad anno o frazione di anno se il periodo complessivo del procedimento è superiore ai termini di durata ragionevole del processo).
Calcolo del termine di durata ragionevole del processo e termini per l'appello
Le difficoltà di stabilire se un procedimento ha superato (o meno) il periodo di durata "ragionevole", dipendono dall'esigenza di dover detrarre dalla durata complessiva del procedimento i periodi di tempo che non sono imputabili alla (cattiva) organizzazione della macchina giudiziaria.
Queste difficoltà diventano evidenti proprio quando si deve decidere se il termine per l'appello deve (o meno) essere calcolato ai fini della ragionevole durata del processo, (ma identica questione è quella relativa al termine per il ricorso in Cassazione).
Infatti, durante il decorso del termine per l'appello, il procedimento è sottratto alla disponibilità della macchina giudiziaria ed è affidato alla discrezionalità delle parti che possono (o meno) decidere se usare tutto il periodo di tempo concesso dalla legge per decidere se proporre (o meno) l'appello oppure possono decidere se accorciare i termini per l'appello (ad esempio notificando la sentenza).
Se si applicasse in modo rigido il principio per il quale il periodo di ragionevole durata del processo deve considerare solo il tempo in cui il procedimento è (effettivamente) affidato alla macchia giudiziaria, si dovrebbe concludere che l'intero periodo previsto dal legislatore per l‘appello deve essere escluso dal calcolo del termine per la ragionevole durata del processo, in quanto si tratta di un periodo di tempo in cui il procedimento è sottratto alla (disponibilità) della macchina giudiziaria.
In questa ottica, si ripete, poiché la ragionevole durata del processo postula la pendenza del procedimento davanti ad un organo della giurisdizione, non si potranno considerare i periodi di tempo nei quali la controversia civile sia sottratta all'esame e alla decisione del giudice, come avviene allorché, essendosi il giudice già pronunciato, con provvedimento definitivo e idoneo alla formazione del giudicato, anche se impugnabile, alle parti sia lasciato dalla legge uno spatium deliberandi in ordine all'eventuale impugnazione; di conseguenza, solo in conseguenza del concreto esercizio dell'impugnazione del provvedimento già emesso – si ripropone l'esigenza di una risposta degli organi della giurisdizione in un tempo ragionevole (e, quindi, della valutazione del termine ragionevole del procedimento giudiziario).
Questa ricostruzione, però non considera che il termine per l'appello copre diverse esigenze: a) decidere se proporre o meno l'appello, b) redigere, materialmente, le difese. Inoltre, deve essere anche valutata la posizione della parte che vincitrice in primo grado non decide di ridurre i termini per l'appello notificando la sentenza, dal comportamento della parte soccombete in primo grado che propone appello (ed ha quindi bisogno di tempo per predisporre la propria difesa).
Questo significa che non si deve detrarre dal periodo complessivo della durata del processo tutto il termine per l'appello. Escluso, quindi, che possa imputarsi alla parte tutto il lasso di tempo intercorso tra un grado di giudizio e l'altro, spetta al giudice dell'equa riparazione apprezzare nelle singole situazioni concrete quanta parte del tempo occorso per la instaurazione del giudizio di impugnazione sia riferibile ad esercizio del diritto di difesa, come tale non addebitabile alla parte, e quanta, invece, alla scelta processuale delle parti di non utilizzare la facoltà sollecitatoria di cui si è detto, con la conseguenza che il relativo lasso temporale andrà riferito al comportamento processuale della parte.
Per cui è compito del giudice chiamato a decidere sulla durata ragionevole (o meno) di un procedimento verificare di volta in volta, tenuto conto delle circostanze delle singole vicende processuali, quale sia in concreto stato il comportamento tra un grado e un altro della parte che chiede l'equa riparazione e scomputare dalla durata complessiva del giudizio solo il lasso di tempo non riconducibile all'esercizio del diritto di difesa.
Di conseguenza, se una parte, per perseguire un proprio interesse, non si avvalga di una facoltà, come ad esempio quella della notificazione della sentenza a sè favorevole a fini sollecitatori, e lasci quindi decorrere tutto intero il termine lungo per la proposizione dell'impugnazione, non può pretendere che il termine decorso venga tutto intero addebitato alla organizzazione giudiziaria, dovendo al contrario, come detto, il giudice dell'equa riparazione apprezzare in concreto il comportamento della parte stessa anche in relazione al mancato esercizio di detta facoltà.
Cass., civ. sez. VI, del 4 luglio 2016, n. 13599 in pdf