Noi trentenni siamo la generazione Erasmus, giusto? E infatti durante i nostri viaggi studio in giro per l’Europa siamo andati a visitare grandi musei come il Louvre, il Prado, la National Gallery e ci siamo spesso chiesti: ma com’è che in Italia i nostri musei a confronto sono così “vecchi”, imbalsamati, spesso chiusi, per non dire che al sud hanno più roba stoccata nei depositi di quella esposta?
Ebbene è da quando ho memoria che su questo argomento sento sempre ripetere: “Il problema sono le sovrintendenze, bisogna superare la giusta esigenza di tutela del patrimonio affiancandola a un’attività di gestione e promozione dei singoli enti anche attraverso fondi privati”. E ancora “I musei devono avere autonomia contabile e amministrativa, devono diventare istituzioni culturali internazionali, bisogna aggiornare i servizi offerti ai visitatori, non in linea con gli standard europei, e risolvere il problema di orari penalizzanti”.
Insomma, come vale per molte altre attività legate al mondo della cultura, c’è bisogno di direttori-manager che abbiano competenze storico artistiche, ma anche di gestione, che siano curatori più che funzionari in grado però di fare “fund raising”. Figure che per esempio in Francia vengono formate all’École du Louvre e negli Stati Uniti seguono carriere interne alle grandi istituzioni pubbliche. E in Italia? Chi sa come si fa a diventare direttore di un museo?
Finalmente però è arrivata la tanto attesa riforma che prova a rivoluzionare la gestione dei venti grandi musei pubblici italiani, dagli Uffizi, alla Galleria Borghese; dalla Pinacoteca di Brera al Museo di Capodimonte trasformandoli, appunto, in strutture dotate di un proprio statuto, un proprio organico e un proprio bilancio e soprattutto di una propria autonomia scientifica. In altre parole, nomini un direttore che, in linea con le indicazioni delle sovrintendenze e del ministero, sviluppa un progetto scientifico e gestionale e si mette alla prova. Basta doppi e tripli tavoli di concertazione per decidere dove appendere un manifesto, basta orari imposti, bilanci stabiliti altrove, ecc…
Fin qui, diciamo tutto bene, o quasi. Il vero “problema” che da ieri sta scatenando la solita – indegna – gazzarra e che, agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, ci fa sprofondare negli abissi del più bieco provincialismo italiota è che il Ministero ha finalmente reso pubblici i nomi dei venti “super direttori”, come sono già stati ribattezzati, scelti attraverso una selezione pubblica. Ebbene, tra loro, 7 su 20, cioè il 35%, sono “stranieri”. Apriti cielo:
“Franceschini ha dimostrato di essere un nemico dell’italianità dell’arte, mettendo in campo scelte che hanno privilegiato gli stranieri a discapito della competenza e della professionalità degli italiani”. “Possibile che il ritardo dell’Italia di cui parla Franceschini possa essere colmato solo facendosi colonizzare!”. Potete crederci? E questi sono solo alcuni dei commenti sentiti ieri da parte di esponenti politici ed esperti, con Vittorio Sgarbi in prima linea a difendere le ben note competenze italiche in materia di gestione del patrimonio. Gad Lerner per gettare acqua sul fuoco ha addirittura proposto, via Twitter, di non definirli “stranieri”, ma “europei”, come se un americano o un cinese fossero poi stati un ripiego, come a dire: europeo sì, ma extracomunitario… non so. Vi immaginate cosa diremmo noi se, per esempio, domani a Chicago montasse una protesta contro Riccardo Muti colpevole di rubare il lavoro ai grandi direttori d’orchestra americani? E cosa dire di Gabriele Finaldi, nominato pochi mesi fa direttore della National Gallery di Londra e accolto dal decano della critica britannica Sir Charles Saumarez Smith con questo commento: “è la cosa migliore che potesse accadere alla National Gallery”. Ops!
Ora, a parte questo mortificante teatrino che ci da un motivo in più per vergognarci di mettere piede all’estero o di incontrare amici “stranieri” qui in Italia, c’è un dato di fondo a cui si faceva cenno anche prima. In Italia, oltre a mancare dei percorsi formativi – come ha dichiarato Paolo Baratta a capo della commissione per la scrematura dei candidati, “qui da noi o si è Direttore di museo o usciere, senza vie di mezzo” – manca proprio il “know how” per la gestione di simili istituzioni. E questo non vale solo per i musei, ma anche per i grandi festival, siano essi di teatro, di cinema, di musica. Cosa dire allora dello “straniero” Marco Müller che per anni ha “occupato” la poltrona prima della Mostra del cinema di Venezia (per ben due mandati) e poi del Festival del cinema di Roma? Un’indecenza, secondo gli autarchici censori.
E quindi con il chiaro intento di dissociarci da questa imbarazzante polemica che elenchiamo, in infilata, i nomi dei nuovi direttori stranieri sia per dargli il benvenuto in Italia (alcuni di essi già lavoravano o avevano lavorato qui da noi) sia per auguragli buon lavoro. Terremo d’occhio il loro operato e non risparmieremo critiche, la posta in gioco è troppo alta, ma per adesso un sincero in bocca al lupo a Eike Schmidt, Sylvain Bellenger, James Bradburne, Cecilie Hollberg, Peter Aufreiter, Gabriel Zuchtriegel e Peter Assmann.