Il programma economico proposto in campagna elettorale e, per ora, mantenuto dal neopresidente americano Donald Trump non è né incoerente né imprevedibile, ma una forma molto rigorosa di neo-mercantilismo. A spiegare cosa questo significhi è Didier Saint-George, managing director e membro del Comitato Investimenti di Carmignac che nota come questa forma di nazionalismo economico non sia affatto una prerogativa statunitense.
“L’idea economica dietro Brexit, o programmi economici promossi da partiti di estrema destra in Francia o in Olanda sostengono ambizioni analoghe” alla Trumpnomics nota l’esperto, secondo cui “non c’è alcun dubbio che il liberalismo economico e la globalizzazione abbiano avuto i propri difetti”, che in parte spiegano l’affermarsi di movimenti e candidati populisti in Europa come in America, ma la domanda più pressante dovrebbe essere: quali saranno le conseguenze di questa deriva verso politiche mercantilistiche?
E’ presto detto: la prima conseguenza sarà il ritorno dell’inflazione. “La politica di Donald Trump è in corso di attuazione in un momento in cui l’inflazione è già in ripresa un po’ dovunque, a vari livelli” nota Saint-George; se il liberalismo, la globalizzazione e l’innovazione si sono rivelate misure deflazionistiche, “è probabile che il supporto a vecchi settori industriali non competitivi, attraverso barriere tariffarie, contribuirà a incrementare l’inflazione”.
Così c’è il rischio concreto che l’incremento dell’inflazione ciclica finisca con l’essere rafforzato dall’anticipazione di una maggiore inflazione strutturale. Ad oggi i mercati obbligazionari, nota l’esperto, “non stanno prezzando questo rischio”, il che significa che sono vulnerabili: meglio non farsi irretire da tassi leggermente più consistenti di quelli di poche settimane fa, dunque, perché la risalita degli stessi (e il parallelo calo delle quotazioni dei titoli di stato) rischia di proseguire a lungo.
La seconda conseguenza saranno le tensioni commerciali, che potrebbero danneggiare l’attività economica globale, o anche aumentare i premi per il rischio politico in alcune regioni. Il mercantilismo, ricorda l’esperto di Carmignac, “si era inizialmente esaurito per due motivi: in primo luogo il crescente risentimento dei partner commerciali”, che in diversi casi “aveva trasformato le guerre commerciali in guerre vere e proprie”, un rischio che evidentemente la Trumpnomics “spinta” rischia di riportare d’attualità.
In secondo luogo gli economisti (come abbiamo già ricordato) “erano giunti alla conclusione di David Ricardo, secondo cui il commercio mondiale non è un gioco a somma zero. Piuttosto che lottare gli uni contro gli altri sui volumi di scambi commerciali, i vari paesi dovrebbero capire che promuovere il libero scambio è vantaggioso per tutti” o quanto meno dovrebbe esserlo fatto salve disfunzioni strutturali dei singoli paesi.
Alla fine il mercantilismo che pare tanto piacere ai leader populisti e, per ora, ai loro elettori, “genera vincitori e vinti, e quindi instabilità” economica e politica e questo non è necessariamente un bene, anzi. Così se gli investitori azionari “hanno ragione quando pensano che valga la pena di investire sui vincitori, che probabilmente sono in primo luogo i settori ciclici e il mercato statunitense”, gli stessi, conclude l’esperto, “farebbero altrettanto bene a prepararsi per affrontare l’instabilità”.
A giudicare alle polemiche subito sollevate col Messico, al rischio di lasciare, con buona pace del Giappone, campo libero alla Cina in tutta l’area del Pacifico con la rinuncia al Ttp e all’immediato ribaltamento della posizione americana nei confronti della questione israelo-palestinese, non solo gli investitori devono stare pronti a convivere con una crescente instabilità.