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Dieci anni dalla morte del Pirata: l’uomo che se ne andava davanti, da solo

Pantani emozionava perché era Rocky in bicicletta e, anche se non può essere portato a esempio perché fu baro tra bari, la sua storia va raccontata, descritta e ricordata.
A cura di Marco Pastonesi
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Gettava la bandana, come un torero che abbandona la “muleta”, un gesto di sfida totale ed estrema. Impugnava il manubrio, nella parte bassa, come un velocista prima di uno sprint a gruppo compatto. Si alzava sui pedali, come se fosse appeso su una parete, come se cercasse di decollare, come se corresse e pedalasse – insieme – per poter staccare tutti, anche l’asfalto e la Terra. E se ne andava. Davanti. Da solo.

Quante volte sarà successo, mica tante. Eppure Marco Pantani è quei gesti, quel rituale, quella immagine. Un uomo a pedali, un cerbiatto in bicicletta, un uomo con il destino da bagnino e che invece diventa alpinista o astronauta. “Dio è pelato”, scrisse un tifoso sulla strada, su uno di quei velodromi verticali dove Pantani interrogava la forza di gravità, puntava il cielo e provava a volare. “Era quasi una divinità”, mi ha detto Brad Wiggins, baronetto che ha indossato la stessa maglia gialla, al Tour, e la stessa botta di gloria.

Sono passati dieci anni – volati, appunto – da quando un campione e un eroe era diventato, nel giro di poche settimane, un ex corridore e anche un ex uomo. Tanto era salito in alto, tanto è precipitato in basso. La sua riservatezza trasformata in diffidenza, la sua leggerezza incatenata e impiombata, la sua generosità blindata anche verso famigliari e amici. Altre agende, altri compagni di strada: se i gregari lo tiravano, gli spacciatori lo facevano tirare. Come se Pantani avesse accettato una nuova sfida, una nuova lotta, una nuova corsa, anche questa a tappe. E se da corridore andava forte per abbreviare l’agonia, da disgraziato fece altrettanto, cercando di andare al traguardo e staccarsi il dorsale. Fine. Stop. Addio. Non ne poteva più.

Pantani durante il Giro d'Italia del 1988
Pantani durante il Giro d'Italia del 1988

Lo chiamavano il “Pirata”. L’orecchino, la bandana, certi travestimenti. E la sua squadra era la ciurma. Pare che a lui, sotto sotto, “Pirata” non piacesse, o non si sentisse. Gianni Mura si era inventato l’appellativo di “Pantadattilo”. Perfetto. Perché Pantani aveva un’aria da animale preistorico alato: un po’ per quella crapa pelata, che lo ringiovanì, anzi, gli cancellò l’età; un po’ per quelle orecchie a sventola, che un giorno si fece ritoccare; un po’ per quel suo modo di interpretare il ciclismo, non scientifico e tecnologico, come ormai facevano negli anni Novanta i suoi avversari, ma sensoriale, se non sensitivo, quasi da autistico, a sensazioni, e di interpretare anche le corse, improvvisando. A Marco bastava pedalare per un’ora, da Cesenatico al Carpegna, sette chilometri di salita in cui capiva se fosse in forma o no, se avesse la stessa voglia di quando, da bambino, ricevette la prima bici grazie anche ai risparmi del nonno Sotero, se avesse la stessa sfacciataggine di quando, da ragazzo, prendeva le salite all’ultimo posto del gruppo per rimontare tutti i corridori guardandoli negli occhi e alimentandosi della loro sofferenza, e se avesse la stessa ispirazione di quando, da scalatore, raggiungeva la solitudine. Che è lo stato ideale di chi va in montagna, a piedi, o in bici, o infine soltanto con il pensiero.

Pantani emozionava perché era Rocky in bicicletta, la titanica rivincita di uno modesto e, nel suo caso, smilzo contro i grandi e grossi, contro i belli e ricchi, e come c’è stato Rocky 1 e poi Rocky 2 e anche Rocky 3, così c’è stato un Pantani 1 e poi Pantani 2 e anche Pantani 3, ogni volta era un ritorno, forse una vendetta, e poco cambia se Rocky se la vedeva con un russo, e Pantani con l’Americano. Pantani emozionava perché il ciclismo sarà anche un fruscio in pista, un ronzio in pianura, una scarica di adrenalina in volata, mille soffi di vento in discesa, ma è soprattutto fatica, sacrificio, anche dolore, a volte addirittura martirio in salita. Ed è solitudine, soprattutto in salita. Pantani è morto solo, e non può essere soltanto una coincidenza fra quello stato caratteriale e l’altro sportivo, agonistico, professionale e poi quello terminale. Solo perché abbandonava gli altri, quando correva al traguardo. E solo perché abbandonò gli altri, quando correva alla morte. Perché fu lui a tirare giù la saracinesca della sua piadineria personale: da Madonna di Campiglio a Christine, dalle corse ai compagni. Basta.

Pantani vince il Tour de France del 1998.
Pantani vince il Tour de France del 1998.

Pantani non può essere portato a esempio. La sua è una storia che però va raccontata, descritta, e ricordata. Non fu il solo a barare: era un baro tra i bari, in un sistema che non poteva individuare la trasgressione e allora, un po’, la ammetteva. Compagni e avversari sostengono che, anche a pane e acqua, Pantani sarebbe stato Pantani. Forse, a pane e acqua, Marco sarebbe rimasto Marco, e non si sarebbe sentito colpevole né vittima. Così si spiega il senso di responsabilità, perfino il rimorso che tutti i protagonisti di quel ciclismo avvertono, come se fossero rimasti debitori di un gesto, di uno slancio, di un sostegno. In fondo, una complicità, o almeno una colleganza, che non si sono tradotte nello stesso trattamento. Pantani è stato, a suo modo, un attore, un cantante, un artista. Ha recitato, cantato, suonato e dipinto. E da protagonista, è stato anche ribelle e rivoluzionario. Un Jim Morrison, un John Belushi, forse un Francis Bacon, o anche un Jesse James. No, non può essere portato a esempio, e tantomeno a modello. Ma la sua parabola dall’altare alla polvere va raccontata, la sua traiettoria schizzata e sbagliata descritta, e la sua tragica fine ricordata, con pietà. Ci ha regalato emozioni, anche se a volte con il trucco, e dieci anni dopo bisogna, se non condividere, almeno partecipare alla sua “torrida tristezza”.

Dal tempo di Pantani – il Pantani del Galibier, di Oropa, dell’Alpe d’Huez – il ciclismo è profondamente cambiato. Di bari ne esisteranno sempre, come in qualsiasi sport, come fra finanzieri e imprenditori, per non tirare in ballo i soliti politici. Ma oggi c’è una nuova generazione di corridori che stanno alle regole. E più che in altre discipline, disciplinate da interessi enormi, e spesso indisciplinati. Ci vorranno decenni per farlo capire. Intanto il ciclismo sopravviverà, perché la bicicletta è il mezzo del futuro. Questo, Pantani, lo aveva sentito da subito.

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Marco Pastonesi è anche autori di un libro sul ciclista: Pantani era Dio. Il giornalista della Gazzetta dello Sport, specializzato in ciclismo e rugby, racconta la vita del Pirata attraverso tutto ciò che ha contribuito a forgiane il mito. La Cesenatico, la piadineria della madre, le montagne predilette e le tante voci degli amici e dei gregari di Marco. "Corridori – spiega Pastonesi – come Brignoli o Siboni, che da professionisti non ne hanno vinta neanche una. E che poi, senza Pantani, non hanno più trovato un senso nel pedalare da uno striscione di partenza a un altro di arrivo, nel recapitare borracce a capitani meno prestigiosi, o meno talentuosi, o meno grati, e nell’assistere, nel comprendere, nell’assecondare sbalzi di umore e di forma. Come se un batterista o un contrabbassista di Thelonious Monk avessero preferito smettere di suonare piuttosto che campare in un’orchestrina da balera o in una banda da matrimoni."

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Giornalista specializzato in ciclismo e rugby, penna ufficiale del Giro d'Italia per la Gazzetta dello Sport. Ha scritto "Meo volava. Avventure e sventure di Venturelli", "La leggenda di Maci" e "Il terzo tempo e In mezzo ai pali", libro con il quale ha ottenuto il premio Ussi-Coni 2002 per i migliori racconti di sport.
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