Se credete che la pazzia (o cinismo che dir si voglia) e l’irresponsabilità di un’intera classe politica nei confronti del governo di un paese affetto da problemi crescenti sia una caratteristica italiana, ricredetevi. Nelle stesse ore in cui “impazzivano” i rappresentanti di un paese con oltre 1.727 miliardi di euro di debito pubblico di cui circa 330 miliardi da rinnovare entro i prossimi 12 mesi vedeva i due principali partiti di governo accapigliarsi apparentemente su una questione relativamente irrilevante come lo slittamento di tre mesi, al primo gennaio prossimo, di un aumento di un punto dell’Iva (che si dice “voluto” dal centrosinistra ma è stato sottoscritto, sotto il governo Monti, anche dal centrodestra) che come ripetuto più volte non farà altro che diminuire marginalmente il reddito disponibile esattamente alla stessa stregua di quanto farebbero gli incrementi di accise (che si affermano “voluti” dal centrodestra, ma predisposti nella bozza di decreto che il governo Letta era pronto ad approvare fino a venerdì mattina scorsa) che dovrebbero “corprirne” il costo, non essendo comunque possibile non rispettare gli impegni presi con l’Unione europea, sottoscritti ripetutamente da un’ampia maggioranza del Parlamento italiano, in quelle stesse ore scene analoghe si consumavano a Washington.
Oltre Atlantico l’oggetto del contendere è la riforma sanitaria di Barack Obama, mai andata giù ai Repubbilcani e in particolare agli esponenti iperconservatori del “Tea Party”. Per i Repubblicani, che hanno già provato almeno 40 volte a depotenziare la riforma, l’occasione è ghiotta: se entro domani (il 30 settembre coincide con la chiusura dell’esercizio fiscale del governo americano) non si approverà il nuovo budget federale, dal primo ottobre interverrà il “government shutdown”, che a differenza dell’esercizio provvisorio previsto dalla legislazione italiana non si limita a sospendere ogni aumento degli stipendi pubblici o nuovi bandi bandi per forniture alla pubblica amministrazione, ma di fatto blocca quasi del tutto la spesa pubblica imponendo l’interruzione di ogni attività non “essenziale” (in sostanza gli uffici pubblici e call center chiudono, col personale che viene mandato a casa senza stipendio, mentre il personale militare resta al suo posto così come prosegue la distribuzione degli assegni per disoccupazione o altri programmi finanziati in modo permanente). Si noti che anche negli Usa, nonostante una crescita robusta e tassi di interesse ben più bassi di quelli sui titoli di stato italiani, il rapporto debito/Pil sta peggiorando e dovrebbe toccare il 73% a fine anno, per poi raggiungere quota 100% entro il 2038 secondo i calcoli del Congressional Budget Office (che è un organismo “bipartisan”).
Ma mentre in Italia il polverone mediatico continua a incentrarsi sulla sorta di un vecchio signore milanese condannato a titolo definitivo per evasione fiscale e sui ricatti del suo partito-azienda al resto del parlamento e del paese, negli Usa, molto più concretamente, si sta già valutando quanto una simile chiusura possa costare in termini di crescita. Secondo l’agenzia Moody’s fino all’1,4% in meno di crescita del Pil (che dunque chiuderebbe il 2013 in crescita solo dell’1,4% e non del 3% come finora previsto) se la “serrata” dovesse durare 3 o 4 settimane. In più vi è il rischio che un simile “empasse” impedisca al Tesoro di pagare regolarmente gli interessi sui titoli di stato già dal 17 ottobre prossimo (data entro cui sarà toccato il “debt ceiling”, ossia il tetto al debito pubblico attualmente fissato in 16.700 miliardi di dollari), fatto questo che implicherebbe una dichiarazione di “default” e l’immediato declassamento del rating sovrano, con conseguente rialzo dei tassi sui T-bond americani e, a catena, sui Bund tedeschi, sui Gilt inglesi e sui titoli di stato giapponesi. Stretti tra una crisi domestica e una paralisi internazionale come pensate reaagirebbero i Btp italiani?
Avendo a mente queste e altre considerazioni non è improbabile che i tassi sui nostri titoli di stato (attualmente attorno al 3,46% annuo effettivo) tornino a salire, lo spread coi Bund sinora mantenutosi tutto sommato a livelli contenuti nonostante il clima di continua campagna elettorale torni ad allargarsi e le agenzie di rating decidano di tagliare anche il rating sovrano italiano. In verità, anzi, Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea ed ex governatore della Banca d’Italia, in continuo contatto con Via Nazionale, col governo e con la presidenza della Repubblica italiana, avrebbe già fatto una (o più) telefonata per “comprare tempo” (arte in cui ha pochi rivali al mondo) ed evitare che già durante questo fine settimana, a mercati chiusi, Standard & Poor’s tagliasse a “junk” (cartaccia) il merito di credito del debito pubblico italiano, con immediato impatto negativo da lunedì sui mercati e quasi matematica certezza della necessità di un ulteriore inasprimento fiscale in arrivo entro fine anno. Cosa che, a sua volta, metterebbe ancora più a rischio una “uscita dal tunnel” della recessione che viene promessa da più di un anno ma ogni volta viene rinviata di trimestre in trimestre.
Non so voi, ma io una crisi che si trascini senza soluzioni altri tre, cinque, dieci anni non la desidero e non penso che il “tirare a campare” e il “trovare un compromesso” per salvare un vecchio signore milanese possa far ripartire il paese e dare una prospettiva a noi e ai nostri figli. E in questo caso il mal comune non è un mezzo gaudio, semmai è fonte di ulteriori preoccupazioni, perché non è detto che neppure se saremo “ligi al dovere” impostoci dalla Germania di fare pulizia dei nostri conti pubblici e contemporaneamente ridurre il debito privato (e dunque “salvare” il nostro sistema creditizio) potremo evitare un ulteriore avvitamento, che interverrebbe su un paese già da quindici anni incapace di crescere. A parziale consolazione vale la pena di ricordare che il resto del mondo sta continuando a crescere e che ci sono occasioni d’impiego e per fare affari (o anche solo per investire i propri capitali) in abbondanza nel mondo e che nessuno ci obbliga a rimanere su una nave che affonda, o a farci rimanere i nostri figli (e i nostri risparmi).