Nell’ultimo giorno utile dell’esame presso la Commissione Finanze della Camera dei deputati, il “decreto banche”, varato lo scorso 10 febbraio dal governo e che andrà convertito in legge entro il prossimo 15 aprile, contenente la riforma delle banche di credito cooperativo (bcc) e il recepimento dell’accordo raggiunto con la Commissione Ue in merito allo schema di garanzia per agevolare le banche nello smobilizzo degli Npe (non performing exposure, ossia i crediti problematici), anche noto come Gacs (Garanzia cartolarizzazione sofferenze), sono spuntati alcuni aggiustamenti marginali ma comunque degni di nota, visto che andranno a toccare le tasche di molti risparmiatori.
Per quanto riguarda il fondo istituito al ministero dell’Economia per finanziare, quest’anno, le operazioni di cartolarizzazioni,si è deciso di alzare da 100 a 120 milioni di euro la capienza del fondo stesso, che dunque potrebbe “coprire” un numero più elevato di crediti. Restano peraltro tutti da chiarire (lo dovrà fare l’aula) i dubbi già segnalati dai tecnici del servizio bilancio della Camera secondo cui il decreto non evidenzia i parametri in base ai quali la cifra, che ora si è deciso di fare salire con un tratto di penna, sia stata determinata. In parole povere: da dove verranno presi i soldi necessari non è ancora chiaro.
Ulteriore novità, poco più che formale, è la definizione del valore delle sofferenze che in base al nuovo testo potranno essere trasferite per un importo “non superiore al loro valore contabile netto alla data della cessione”, anziché al “valore netto di bilancio”. Più sostanziale l’accoglimento delle richieste giunte dall’Associazione bancaria italiana (Abi) che chiedeva, ed ha ottenuto, di allargare la platea dei soggetti che potranno procedere a cartolarizzare gli Npe: potranno pertanto accedere alla garanzia non solo le banche, ma anche gli altri intermediari finanziari iscritti all’Albo, come le società di leasing o di factoring.
In soldoni cosa cambia, siamo forse di fronte a una significativa estensione della garanzia statale, ovvero alla nascita di una “bad bank” sia pure leggera, in barba alle norme comunitarie che dall’avvio, il primo gennaio di quest’anno, del regime del “bail in” prevedono che a sostenere gli oneri di eventuali fallimenti siano in primis i soci, in seconda battuta gli obbligazionisti (in base ovviamente al grado di maggiore o minore “seniority”, ossia alle garanzie, di ciascuna emissione obbligazionaria) e, ove necessario, persino i correntisti per importi superiori ai 100 mila euro a testa? La risposta è no e non poteva essere diversamente.
Le Gacs continueranno a poter essere concesse solo alle tranche “senior”, più sicure, delle future cartolarizzazioni e solo a condizione che esse abbiano ottenuto un rating “investment grade”. La copertura statale contribuirà naturalmente a migliorare il rating delle emissioni, ma solo marginalmente, non potendo in alcun modo risolvere il problema delle sofferenze (pari a 200 miliardi sui 350 miliardi di crediti deteriorati che complessivamente stanno nei forzieri delle banche italiane) e, di conseguenza, non alleggerendo se non molto marginalmente la necessità per le banche italiane di proseguire nell’opera di ricapitalizzazione che qualcuno sperava potesse essere stata già completata.
Così non è e come la vicenda Bpm-Banco Popolare ha già mostrato anche la Vigilanza Bce, cui le maggiori banche europee debbono ormai rivolgersi per avere l’autorizzazione a operazioni di fusione, non ha alcuna intenzione di fare sconti: chi vorrà fondersi potrà farlo solo se tutti i parametri (governance, qualità del credito, patrimonializzazione) saranno a posto, altrimenti resterà al palo. E se restando isolato l’istituto corresse dei rischi alla Bce basterà inviare una letterina, come fatto con Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca, per ricordare ad amministratori e azionisti che in assenza di ricapitalizzazioni, dismissioni e abbattimento delle sofferenze il “bail in” potrà scattare in qualunque momento a insindacabile giudizio degli sceriffi di Mario Draghi.
Un ultimo aspetto resta poi da valutare: chi sarà a giudicare se i crediti sottostanti le singole cartolarizzazioni saranno davvero quello che sembrano? La domanda non è capziosa, visto che fino a poco più di un anno fa Veneto Banca sosteneva che le sue azioni valessero 39,50 euro ma la Bce ha imposto una svalutazione che ha portato ad abbattere il valore a soli 7,3 euro, mentre Banca popolare di Vicenza ha visto i propri titoli passare dai 62,5 euro di due anni fa a soli 6,30 euro. Se dovesse accadere che anche le future cartolarizzazioni dovessero essere a distanza di qualche anno svalutate, non ci saranno garanzie che tengano, con o senza le piccole modifiche introdotte al decreto banche.