Di questi tempi è meglio se non nominate il nome di Carlo De Benedetti a Federico Ghizzoni, numero uno di Unicredit: mentre in borsa il titolo Cir, holding della famiglia De Benedetti che custodisce il 52,845% del capitale di Sorgenia (gli austriaci di Verbund hanno l’11,255%, Mps l’1,2%, il management il restante 0,3%) si è da qualche giorno messo alla finestra oscillando sugli 1-1,10 euro per azione, gli incontri tra i rappresentanti degli azionisti di Sorgenia e quelli delle banche creditrici, insieme ai rispettivi advisor (Lazard per Sorgenia, Rotschild per le banche), proseguono nel tentativo di arrivare ad un intesa sulla ristrutturazione del debito (1,84 miliardi a fine 2012) che porti ad un abbattimento dello stesso di almeno 600 milioni. Il problema è che da settimane Cir va ripetendo che “taluni punti del documento” su cui si tratta e che prevede “un aumento di capitale di Sorgenia per complessivi 400 milioni di euro in opzione ai soci e per la parte inoptata (totale o parziale) mediante conversione di crediti degli istituti finanziatori in azioni, l’emissione di un prestito obbligazionario convertendo da 200 milioni”, debbano essere “oggetto di chiarimento e approfondimento, nell’interesse della società”.
Traduzione per i non addetti ai lavori: i De Benedetti non intendono scucire più di tanto (si è parlato di non oltre 100 milioni, ossia la metà di quanto spetterebbe in base ad una sottoscrizione dell’aumento pro-quota, contro una richiesta di versare almeno 150 milioni da parte delle banche creditrici) e sembrano anzi disposti a lasciarsi diluire fino quasi ad azzerare la partecipazione. Stessa canzone arriva da Verbund, favorevole a “una soluzione italiana” come hanno avuto modo di dichiarare i portavoce della società, che del resto ha già azzerato il valore della partecipazione nel proprio bilancio alla fine dello scorso anno (dopo averlo taglaito da 654 a 152 milioni nel bilancio 2012) e quindi è pronta a uscire del tutto di scena sia che passi l’ipotesi di aumento del capitale mediante conversione del debito, sia che si faccia avanti qualche “cavaliere bianco” interessato a rilevare la quota.
Cavaliere bianco che non avrà la fattezza di una “banca di sistema”, anzi: le tre banche italiane maggiormente esposte, su 21 istituti coinvolti, ossia Mps (principale creditore con 600 milioni di euro di finanziamenti accordati), Intesa Sanpaolo (370 milioni) e Unicredit (180 milioni, alla pari della più piccola Ubi Banca), sostengono che il patrimonio netto di Sorgenia è negativo e pertanto proporrebbero condizioni particolarmente onerose, ossia diluitive, per quanto riguarda l’aumento. A Cir (e Verbund) resterebbe infatti in mano attorno al 3% una volta effettuato l’aumento. Per i De Benedetti e i loro soci austriaci il rischio di gettar soldi per restare con un pugno di mosche in mano è evidente, tanto che le ultime ipotesi di lavoro prefigurerebbero una non partecipazione all’operazione da parte degli attuali soci di controllo.
Una vicenda a dir poco delicata che ha finito col creare qualche dissapore tra le banche, con lo stesso Ghizzoni che avrebbe espresso meraviglia per il fatto che un istituto già in affanno di suo come Mps (alla cui presidenza siede, ironia della sorte, proprio quell’Alessandro Profumo che di Ghizzoni fu il capo quando era amministratore delegato di Unicredit e non perdeva occasione per parlare della necessità anche per una banca di “creare valore” per gli azionisti) abbia concesso così tanto credito (il triplo rispetto a quello concesso da due istituti che hanno un totale degli impieghi quasi quadruplo di Siena) a un’impresa in evidente difficoltà. Il peccato originale di Sorgenia, ammesso dallo stesso Carlo De Benedetti, risale infatti ad “investimenti sbagliati” (quattro nuove centrali a gas, più efficienti di quelle dei concorrenti diretti, ma in un periodo in cui il carbone diventava meno costoso) effettuati mentre era in corso “una rivoluzione del mercato elettrico nel mondo” e in Italia (dove per far crescere le energie rinnovabili si varavano sussidi a favore di queste ultime).
Un errore strategico pagato a caro prezzo: nell’ultimo piano industriale approvato dal Cda di Sorgenia si parla infatti di un “Ebitda annuo intorno ai 110-120 milioni di euro” da conseguire nel triennio 2014-2016, peraltro “in linea con l’Ebitda operativo conseguito negli ultimi anni”, praticamente poco più degli oneri sul debito che la società ha finora pagato ogni anno (oltre 97 milioni di euro nell’esercizio 2012). Insomma: se non cambia lo scenario del settore, con un crollo delle quotazioni del gas e/o un rincaro di quelle del carbone (e minori sussidi alle rinnovabili, così da renderle meno competitive), Sorgenia continuerà produrre (e vendere) molta meno energia di quella che i suoi impianti potrebbero in teoria erogare (attualmente gli impianti sono sfruttati per circa la metà della potenza installata). E questo significa che se non cala drasticamente il debito, la situazione continuerà ad essere insostenibile.
Ma convertire 600 milioni o più di crediti in capitale porterebbe le banche a dover governare l’ennesimo “pasticcio all’italiana” proprio in un periodo in cui le banche stesse stanno cercando in tutti i modi di scaricare le patate bollenti fuori dai propri bilanci, dopo aver per anni prestato molto agli “amici” (e molto meno agli altri). Così oltre a trattare con i De Benedetti, i vertici di molti istituti sembrano sull’orlo di una crisi di nervi, con reciproci scambi di accuse su chi ha finanziato di più e peggio progetti industriali o finanziari che, da Alitalia a Rcs, da Carlo Tassara a Sorgenia, passando per molti grandi gruppi immobiliari, sembrano essere stati costruiti su fondamenta quanto meno traballanti, per la scarsa gioia degli azionisti delle banche.
Con Mps, Intesa Sanpaolo, Unicredit e Ubi Banca rischiano infatti anche Bpm (esposta per 177 milioni), Banco Popolare (157 milioni), Mediobanca (143 milioni), Banca Carige (41 milioni), Banca Popolare di Vicenza (20 milioni) e Banca Etruria (8 milioni): guarda caso molti di questi istituti hanno già dovuto o dovranno a breve lanciare un aumento di capitale, scaricando così anche parte del costo della generosità verso Sorgenia sulle spalle del mercato. Quo usque tandem?