Dalla crisi inesistente non usciremo meglio di altri. Così non va: mentre il governo Monti sembra tirare a campare e affievolisce viepiù ogni sia pur flebile intento riformista, costretto del resto a mercanteggiare giorno per giorno con un Parlamento che resta espressione di lobbies e cricche di ogni genere per nulla intenzionate a rinunciare ai propri privilegi e rendite di posizione, che si tratti degli scandalosi contributi alla stampa, degli albi di Stato per mantenere chiuse le “libere professioni”, o dei limiti alla concorrenza che farmacisti, tassisti, benzinai, banche e assicurazioni ma anche ferrovie e gestori di servizi di “pubblica utilità” continuano ad accudire amorevolmente manco fossero reliquie di qualche santo dotate di miracolosi poteri taumaturgici, il paese affonda sempre di più in una crisi che per l’esecutivo che ha preceduto l’attuale era “inesistente” (concetto più volte espresso dal “liberista” Silvio Berlusconi che dal 1994 a oggi poco per non dire nulla ha liberalizzato in Italia, troppo impegnato a tutelare le proprie rendite di posizione) e dalla quale comunque saremmo dovuti “uscire meglio di altri” (come più volte ribadito dall’ex ministro dell’Economia e finanza Giulio Tremonti). La crisi è invece sempre più presente e non sembra proprio che l’Italia possa uscirne meglio di altri (sempre che trovi una ricetta per uscirne, non essendo più a lungo credibile la favola che basta tanta buona volontà, fiducia e “virtuoso” rigore fiscale per far ritrovare miracolosamente slancio al paese). Il perché è semplice: troppe “manovre” e tutte in tempi troppo ristretti stanno uccidendo quel che resta di un tessuto economico già indebolito da decenni di assenza di qualsivoglia politica economica, da errori imprenditoriali, da miopie politiche, dall’invecchiamento della popolazione e dalla presenza di un fisco feroce coi deboli ma connivente con evasori e corruttori. Non pretendo di essere un esempio valido per tutti, ma vi porto il mio caso personale: negli ultimi sei mesi circa ho visto i professionisti che lavorano per la mia azienda (commercialista, avvocato, notaio…) chiedere il pagamento di “sospesi” o di “anticipi” per le proprie prestazioni per l’equivalente di un terzo circa del mio fatturato lordo. Fatturato su cui ovviamente pago circa il 42% di tasse. Col 20%-25% che rimane del mio fatturato lordo ho pagato utenze (telefono, acqua, luce, gas…) e un piccolo (per fortuna) mutuo immobiliare, più qualche spesa “voluttuaria” (qualche cena con amici e famigliari, qualche cinema o teatro con mia moglie e mio figlio, qualche piccolo viaggio sia di lavoro sia di “svago”). Così facendo sono a malapena stato in grado di tener testa ai pagamenti, ma alcune voci di spesa “discrezionale” (ad esempio i versamenti a un fondo pensione per integrare la mia futura pensione, visto che ho 45 anni e debbo iniziare a pensarci, o qualche regalo extra a me o ai miei, o qualche spesa in più per la casa) l’ho dovuta rimandare. Eppure a differenza di molti amici professionisti e piccoli imprenditori il mio reddito non è calato finora in conseguenza della crisi e questo mi pare già un primo e non disprezzabile risultato.
Pochi maledetti e subito. La realtà è che al momento nessuno ha fiducia in nessuno e tutti tentano di riottenere indietro l’eventuale credito fornito: banche, assicurazioni, gestori di carte di credito ma anche servizi di pubblica utilità, liberi professionisti, fornitori e naturalmente il fisco stanno sempre più riducendo i tempi entro cui procedere al pagamento, o alzando i tassi, tariffe e prezzi per i propri servizi (quando dispongano di un minimo di “pricing power”) mentre cosa stia facendo il fisco è sotto gli occhi di tutti. Insomma: mentre siamo in pieno credit crunch continua il processo di deleveraging del settore privato e il fisco aumenta la sua pressione. In questo modo il debitore (ossia i contribuenti italiani, aziende o privati che siano) rischiano di passare a miglior vita (e qualcuno purtroppo sceglie questa come scorciatoia per risolvere i propri problemi a giudicare dal numero impressionante di suicidi di imprenditori e non di cui si legge sui giornali). Servirebbe scaglionare le richieste, consentendo al debitore di pagare e rientrare gradualmente e così tutelando meglio i propri crediti (è un concetto talmente elementare che persino gli strozzini lo capiscono, tanto che raramente uccidono chi ha un debito con loro, per quanto il malcapitato possa passare sovente dei brutti quarti d’ora), ma tutti sembrano preferire “pochi, maledetti e subito” che non correre il rischio di restare col classico “cerino in mano”; così facendo tuttavia la profezia rischia di auto avverarsi. Certo, il problema sta a monte: con l’esplodere della crisi del debito sovrano in Europa le banche, come ricorda un’analisi di Angelo Baglioni, hanno visto inaridirsi quasi completamente la raccolta netta dal’estero e l’intervento della Bce non ha fatto altro che consentire una sostituzione della raccolta netta dalla clientela ordinaria, più costosa, con quella a basso costo legata a Eurotower o consentire un’ulteriore crescita dell’esposizione ai titoli di stato italiani (operazione che di fatto aumenta le attività a rischio ma consente di fare “carry trade” ossia lucrare la differenza tra il costo della raccolta, 1% fisso, e il rendimento dei titoli in cui la raccolta è investita). Non hanno le banche girato la liquidità così ottenuta per fare nuovo credito a imprese e famiglia perché lo scenario macroeconomico continua a peggiorare, generando un circolo vizioso per cui prestare è rischioso ma soprattutto inutile visto che la domanda interna di beni e servizi sta calando per effetto dell’austerity e che anche il reddito disponibile rischia di calare (visto il tendenziale incremento della disoccupazione), con l’ulteriore rischio che si creino nuovi deficit di bilancio (a causa di un calo delle entrate fiscali più rapido di quello delle uscite, anche perchè la lotta all'evasione resta più un intendimento che un risultato concreto e tangibile) che inducano a nuove “manovre”, a nuovo deleveraging, ad un ulteriore inasprimento del credit crunch e così via, aumentando di pari passo il numero di fallimenti, di crediti inesigibili, di ritardi nel pagamento di mutui, bollette, tasse e così via.
Come se ne esce. Da questa spirale perversa non si uscirà grazie alla maggiore “serietà” del premier di turno (anche se questa aiuta certamente a contenere i danni), né solo attraverso politiche autenticamene liberali, che servono certamente, ma per essere attuate richiedono tempi lunghi se non altro per vincere la pensate inerzia di sistema causata dalle rendite di posizione delle varie cricche e lobbies sopra ricordate e che comunque possono solo far girare meglio il motore dell’economia, non avviarlo né sostituirsi al motore stesso che resta legato alla capacità imprenditoriale di una nazione, ossia alla sua capacità di creare valore aggiunto. Per uscire da questa spirale mortale oltre a una revisione dell’attuale approccio di politica di bilancio (basta continui aumenti delle tasse, sì a tagli delle tasse programmati nel corso dei trimestri a venire in parallelo ad un altrettanto programmato taglio della spesa, il tutto con gradualità per evitare ulteriori shock alla domanda interna aggregata e per dar tempo a chi sarà coinvolto nei tagli di ricollocarsi e/o ristrutturare la sua offerta di prodotti o servizi) serve un’accelerazione del processo di unione politica dell’Europa. L’Europa “delle banche” non ha salvato le banche dalla crisi e non salverà i cittadini del Sud Europa, sempre più staccato dal “virtuoso” Nord. Basta vedere gli ultimi dati sulla produzione per capirlo: secondo quanto annunciato in settimana dall’Istat, la produzione industriale italiana è calata a febbraio dello 0,7% (in linea con le attese), ovvero, corretta per gli effetti di calendario, è calata su base annua del 6,8%. Nello stesso mese la produzione industriale dell’Eurozona calcolata da Eurostat è cresciuta dello 0,5% (+0,2% nella Ue27), mentre su base annua la produzione industriale di Eurolandia (come pure della Ue27) ha limitato il calo all’1,8%. Non si tratta più di impedire che l’Italia si deindustrializzi, si tratta di trovare nuovi settori e nuove attività in cui investire quel minimo di capitale che ci resta e convincere gli altri membri di Eurolandia che siamo degni di fiducia e che possiamo farcela. In entrambi i casi sembra che stiamo parlando di miracoli, ma visto che non ci sono altre alternative è forse il caso che ognuno di noi cerchi di farli avverare, per quanto di competenza, o si prepari a lasciare la nave che affonda, chi vorrà e se potrà farlo.