Agli occhi di un italiano gli analisti della banca d’affari americana Morgan Stanley potrebbero aver preso un colpo di sole: in un report appena distribuito alla clientela gli esperti a stelle e strisce profetizzano una ripresa più duratura del previsto: dieci anni tondi dalla grande recessione del 2008-2009, ovvero sino al 2019. Merito in gran parte del “denaro facile” che le banche centrali continuano ad iniettare nel sistema finanziario mondiale secondo quanto sottolinea il capo economista Joachim Fels che ricorda come “l’espansione, già vecchia di cinque anni, potrebbe facilmente estendersi per altri cinque”. Già, perché mentre in Italia il Pil non registra una crescita degna di tal nome da oltre 15 anni, come periodicamente ricorda Banca d’Italia (il cui Consiglio Superiore ha peraltro deciso a fine luglio di aumentare del 15% per alcune categorie di dirigenti, pari a 3-4 mila euro lordi annui, una componente retributiva fissa, l’indennità forfettaria delle spese di rappresentanza o “di cravatta” che dir si voglia, perché che diamine un banchiere non è un pezzente e vestirsi bene costa caro, anche durante una crisi) il resto del mondo ha subito ripreso a crescere.
Così se a fine 2009 in tutto il mondo si erano prodotti beni e servizi per il mercato per la cifra di “soli” 58.885 miliardi di dollari contro i 62.169 miliardi di un anno prima, secondo i dati della Banca Mondiale (World Bank) già l’anno seguente si era risaliti a 64.548 miliardi, per arrivare a sfiorare quota 74.900 miliardi alla fine dell’anno passato. Il “Bel Paese” invece è passato nello stesso periodo dai 2.307 miliardi di dollari di Pil del 2008 a 2.111 miliardi l’anno seguente, per poi scivolare a 2.055 miliardi nel 2010, risalire a 2.196 miliardi nel 2011, riprecipitare a 2.013 miliardi nel 2012 e chiudere il 2013 con un “rimbalzino” a 2.071 miliardi che non si riesce più a capire a questo punto se saranno o meno superati a fine 2014 (visto però l’andamento del primo semestre, il calo dell’euro contro dollaro e l’assenza per ora di riforme che incentivino nuovi investimenti una scommessa la si potrebbe azzardare, per una risposta negativa intendo).
Se in Italia c’è da piangere (ma in tutta l'Eurozona la situazione non sembra assai migliore), il bicchiere appare mezzo vuoto all’economista di Morgan Stanley anche a livello mondiale, in quanto – ricorda Fels – a costringere le autorità a mantenere o prendere in considerazione ulteriori stimoli è proprio il timore, fondato, che la crescita che si possa mantenere più debole di quanto auspicato. Lo stesso esperto ha così ulteriormente limato le sue previsioni riguardo la crescita mondiale al 3,1% (dal precedente +3,2%) a fine anno, al +3,5% nel 2015 e al +3,8% nel 2016. Numeri “dell’altro mondo” non solo per l’Italia ma per tutta l’Eurozona, che risentono della formidabile rincorsa che tuttora prosegue da parte delle economie emergenti, con la Cina sempre più protagonista (secondo Ihs il Pil cinese supererà quello Usa, attualmente il maggiore al mondo, entro il 2024).
Questo anche se Pechino vede sempre più a rischio l’obiettivo di una crescita del Pil del 7,5% a fine anno, dato che le misure per “raffreddare” le speculazioni immobiliari e in generale tenere sotto controllo il settore creditizio stanno impattando sulla domanda interna, come segnala il dato odierno del surplus commerciale di agosto, salito a 49,8 miliardi di dollari non solo grazie alla crescita dell’export (+9,4% contro il +9% atteso), ma anche dell’inattesa frenata delle importazioni (-2,4%). Insomma, l’onda lunga della crisi del 2008-2009 (e le decisioni prese per contrastare la crisi del debito sovrano del 2010 e seguenti) sta facendo aumentare il divario tra vecchio e nuovo mondo anche se per il futuro ci aspetta una crescita forse più duratura del previsto, ma meno vigorosa di quanto ci si aspettava e di quanto sarebbe necessario.
Un simile quadro previsivo (e corrente) dovrebbe contribuire a rafforzare quel senso di urgenza per le riforme che devono essere varate quanto prima a livello sia italiano sia europeo per favorire una ripresa degli investimenti privati, quelli pubblici essendo destinati a rimanere “razionati” per esigenze di contenimento ed efficientamento dei bilanci pubblici (con buona pace del presidente dell’Eurogruppo Juncker che insegue il sogno di un piano triennale di investimenti europei da 300 miliardi di euro, peraltro ancora tutto da definire), se non muterà l’approccio “rigorista” che l’Europa segue su input tedesco e per timore di future disillusioni dei mercati che potrebbero costare caro assai ai paesi più indebitati ove facessero ripartire i tassi sui titoli del debito pubblico. Se non riusciremo a ricreare un ambiente in grado di favorire lo sviluppo delle piccole e medie imprese italiane e ad attrarre capitale straniero per lo sviluppo di nuove attività, ad esempio valorizzando le nostre eccellenze (dall’agroalimentare alla moda, dal turismo all’artigianato di alta classe, senza dimenticarci di sostenere il processo di nascita e sviluppo delle nostre più meritevoli startup) non sarà possibile riassorbire disoccupazione.
Ma una disoccupazione che per troppi anni resta elevata significa una quota crescente di lavoratori destinati a finire “fuori gioco” per sempre a causa di motivi anagrafici oltre che di obsolescenza delle competenze acquisite. Il tempo della politica è notoriamente disallineato e più lento di quello dei mercati, ma ormai non si può più fare melina: agli annunci debbono seguire fatti concreti e non perché lo abbia detto Sergio Marchionne (che dal proprio canto sembra sempre più sognare una Fca a stelle e strisce in cui la presenza italiana sia poco più che accidentale e residua), ma semplicemente perché è la realtà, checché ne pensino lobbies e gruppi di potere che in questi decenni hanno finito con lo spolpare fin quasi all’osso ogni ricchezza di questo paese, ponendo una pesante ipoteca sul suo futuro.