Sull’integrazione dei migranti in Europa c’è ancora molta strada da fare
Il 2015 è stato l'anno dell'emergenza immigrazione: oltre un milione di persone sono arrivate in Europa attraverso il Mediterraneo, il numero più alto di sempre. Un trend che continua anche nel 2016, con una media oltre 2mila ingressi al giorno e 65.775 migranti che nel solo mese di gennaio sono approdati sulle nostre coste. Di questi 60.502 sono arrivati in Grecia (per lo più siriani e afgani), mentre in Italia il numero è stato nettamente minore: 5.273 persone, provenienti soprattutto da Eritrea, Nigeria e Somalia. Nello stesso periodo, in 366 hanno perso la vita in mare, la maggior parte annegando nel tentativo di raggiungere la Grecia. I dati sugli arrivi sono stati raccolti dalla Fondazione Ismu, che ha calcolato anche la composizione dei flussi dello scorso anno: su 1 milione e 15.078 migranti approdati nel 2015 in Europa, oltre 300 mila sono minori. Anche su questo fronte, la maggior parte di loro si è diretta in Grecia – per il 35% – piuttosto che in Italia, dove la percentuale di bambini e ragazzini scende all'11% e arrivano per lo più uomini adulti. Un dato che riguarda il nostro paese è quello sui minori non accompagnati: l'anno scorso sono stati oltre 12 mila, provenienti soprattuto da Eritrea, Egitto, Gambia e Somalia. Secondo il rapporto dell'Unhcr Mid Year Trend 2015, il numero totale dei rifugiati nel mondo – che nel 2014 era di 19,5 milioni – ha superato – per la prima volta dal 1992 – la soglia dei 20 milioni a metà del 2015. Numeri che in realtà potrebbero essere anche maggiori, considerato che il report conteggia solo le persone protette dall'Unhcr. Stando ai dati, ad oggi una persona su 122 è stata costretta ad abbandonare la propria casa: si parla di 4 milioni e 600 mila siriani fuggiti dal proprio paese dall'inizio del conflitto nel 2011, e rifugiatisi in Turchia, Libano e Giordania. Un esodo che l'Unhcr ha definito la più grave crisi umanitaria degli ultimi venticinque anni.
Negli ultimi cinque anni sono state presentate in Europa oltre 814mila richieste d'asilo da parte di siriani, di cui 532mila in paesi dell'Unione europea, Svizzera e Norvegia. Il 54% di queste in Germania e in Svezia. Gli alti numeri delle richieste d'asilo sono spesso stati al centro di dibattiti e polemiche interne agli Stati e misure repressive discutibili, in un momento di grossa crisi del sistema Schengen, allerta terrorismo e suggestioni anti immigrati dopo fatti come quelli di Capodanno a Colonia. Secondo il segretario generale dell'Ocse, Angel Gurria, però, "i rifugiati possono e devono essere quindi parte della soluzione a molte delle sfide che le nostre società si trovano ad affrontare. Ma questo dipenderà in gran parte dalla capacità di progettare e realizzare efficaci misure di integrazione". Nel rapporto Making Integration Work: Refugees and others in need of protection pubblicato dall'Ocse a fine gennaio 2016, l'organizzazione ha messo in evidenza buone pratiche e ostacoli dell'integrazione europea. Un sistema che, nonostante sia migliorato negli ultimi decenni, continua ad avere "molta strada da fare".
Mentre "in alcuni paesi dell'Europa centrale e orientale l'integrazione dei rifugiati è un'esperienza del tutto nuova – scrive l'Ocse – anche quelli con una lunga storia di integrazione stanno mostrando evidenti difficoltà di governare l'imponente ondata di flussi migratori". Così accade che i richiedenti asilo attendano mesi o forse anni prima di ottenere lo status di rifugiato, rimanendo bloccati in centri di accoglienza dove vivene negato sostengo o anche solo formazione linguistica. Una situazione che, rileva l'organizzazione, può compromettere gravemente la loro capacità di integrazione. Quello che serve è "un investimento deciso e immediato per aiutare i rifugiati a stabilirsi, adattarsi e sviluppare le proprie competenze", tra cui l'insegnamento della lingua e un rapido accesso al mercato del lavoro. Proprio quest'ultimo punto è particolarmente dolente. Secondo il rapporto Ocse, esistono forti barriere all'accesso all'occupazione per rifugiati e richiedenti asilo, spinti nella sacca del lavoro nero e in attività "qualitativamente inferiori rispetto al titolo di studio e alle competenze possedute". Nella maggior parte dei paesi i rifugiati per trovare un'occupazione devono attendere un periodo dalla presentazione della richiesta d'asilo, che va da un minimo di un mese in Portogallo fino a dodici mesi nel Regno Unito.
Sui rifugiati pesa anche l'emergenza abitativa: spesso i migranti vengono sistemati in piccole strutture decentrate, lontani dalla popolazione autoctona. Invece, secondo l'Ocse, "una strategia di intervento ideale dovrebbe prendere in considerazione i profili individuali dei migranti e le loro prospettive di integrazione nelle comunità locali". Il rapporto fa l'esempio della Svezia, dove la questione è regolata da accordi tra comuni e governo centrale, con informazioni puntuali ai nuovi arrivati circa le opportunità di lavoro sin dal momento in cui ottengono il permesso di soggiorno. Dove non arrivano le amministrazioni, rileva l'Ocse, suppliscono le organizzazioni non governative e comunitarie. Infine, c'è la questione minori stranieri non accompagnati, che necessitano di più assistenza, più impegno e, quindi, più fondi. "Ma questo non deve impedire ai paesi d'accoglienza di stanziare fondi per consentire ai minori non accompagnati di imparare rapidamente la lingua, acquisire le competenze necessarie per un'integrazione a lungo termine e superare gli effetti delle esperienze traumatiche e violente che hanno spesso subito", si legge nel rapporto, dove vengono citate come "buone pratiche" le famiglie affidatarie per i minori stranieri non accompagnati. Una soluzione attualmente adottata in paesi come Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Estonia, Germania, Irlanda Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Spagna, Svezia , Turchia, Regno Unito e Stati Uniti.