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Da Deutsche Bank a Barclays, situazioni a rischio per il credito europeo

Da Deutsche Bank a Barclays, da Credit Suisse a Standard Chartered tra le grandi banche d’Europa i problemi abbondano e nonostante gli sforzi di Mario Draghi le soluzioni non sembrano dietro l’angolo…
A cura di Luca Spoldi
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Deutsche Bank ha chiuso la giornata in calo del 7,23%, Barclays ha perso il 6,28%, Standard Chartered è finita in rosso del 2,7%, Credit Suisse ha limitato i danni terminando a -0,36%. Per le “grandi malate” d’Europa la stagione delle trimestrali non sta portando alcun regalo, anzi. Il problema sembrerebbe legato a un mix di fattori a dir poco sfavorevole, come il calo del giro d’affari e degli utili derivanti dalle attività di banca d’investimento, che finora avevano compensato la debolezza delle attività di banca commerciale, e l’esposizione all’Asia e ai settori che con essa lavorano (e che quindi potrebbero risentire maggiormente del rallentamento della crescita della seconda economia mondiale).

Tutti gli istituti in questione hanno già rinnovato i vertici, ma ogni colosso sembra avere la propria strategia per cercare di uscire dalla crisi, ma dopo tanti annunci i mercati sembrano voler vedere i fatti anche perché la politica monetaria della Bce impostata da Mario Draghi può fare molto per scongelare i mercati del credito, di fatto rimasti ibernati prima dalla crisi finanziaria mondiale del 2008-2009, poi dalla tetragona e autolesionistica “austerità a prescindere” con cui la Germania e quindi l’intera Unione europea ha cercato di superare la crisi del debito sovrano dei paesi della sponda Sud, ma non può fare miracoli in termini di crescita ed anzi rischia di rendere poco appetibile l’attività bancaria ordinaria (a causa dei modesti ritorni che essa genera per gli istituti di crdito).

Standard Chartered, ad esempio, ha sofferto duramente dell’esposizione all’Asia (con sofferenze in forte crescita sui prestiti effettuati in India e in Cina) ma anche al mercato delle materie prime, che in queste settimane ha visto molti prezzi toccare livelli che non si vedevano da oltre 15 anni. Il nuovo amministratore delegato, Bill Winters, starebbe valutando un aumento di capitale da almeno 2,5 miliardi di sterline dopo aver già tagliato di oltre 600 milioni i dividendi, ma molti analisti ritengono che per svoltare la banca debba ottenere dai 5 ai 6,5 miliari di sterline di mezzi freschi: basteranno a riempire il “gap” le cessioni di asset a rischio per 20 miliardi entro il 2016 che Winters ha promesso?

Il mercato per ora sembra dubitarne, visto che il titolo da inizio anno ha perso già un quarto del suo valore riducendo la capitalizzazione di borsa a meno di 18,7 miliardi di sterline. Il Credit Suissse da parte sua sembra aver già deciso che è meglio non cercare di combattere una battaglia che pare persa in partenza: il Ceo Tidjane Thiam ha infatti annunciato che il gruppo eliminerà 2 mila posizioni di lavoro a Londra riducendo la sua presenza nel settore dell’intermediazione e dell’advisory.

La banca elvetica da lunedì ha anche ha cessato le attività come primary dealer (specialisti che acquistano i titoli di stato direttamente dal Tesoro al momento delle nuove emissioni) sul mercato obbligazionario britannico oltre che sugli altri sei mercati europei tra cui Germania, Italia, Francia e Spagna. Il mercato dei primary dealer è infatti sempre più concentrato e sottoposto a pressioni per quanto riguarda la redditività in rapporto all’utilizzo di capitale necessario ad avere una quota di mercato sufficientemente elevata per generare economie di scala e pertanto profitti.

Una volta ridotti i costi Thiam intende concentrarsi sullo sviluppo in Europa delle attività di wealth management e rafforzare la presenza in Asia. Una strategia che anche Deutsche Bank, scottata tanto dal coinvolgimento in una serie di scandali (sulla fissazione del tasso Libor piuttosto che sui cambi) quanto da investimenti in società come Volkswagen o la banca cinese Hua Xia Bank rivelatisi poco fortunati, sembra voler imitare.

John Cryan, il nuovo numero uno del gruppo tedesco, ha infatti annunciato che non saranno distribuiti dividendi per questo esercizio e il prossimo e che verranno tagliati 9 mila posti di lavoro a tempo pieno e di 6 mila posizioni esterne, oltre alla cessione entro i prossimi 2 anni di asset (tra cui verosimilmente PostBank, finita di rilevare appena 5 anni fa) caratterizzati da una base di costi di 4 miliardi di euro e da una forza lavoro di 20 mila dipendenti.

Deutsche Bank rinuncerà del tutto ad essere presente in dieci paesi: Argentina, Chile, Messico, Perù, Uruguay, Danimarca, Finlandia, Norvegia, Malta e Nuova Zelanda. Una volta dimagrita, la banca intende rafforzare la propria presenza in Europa sfruttando le sinergie tra le attività di private banking e wealth management, ribadendo che l’Italia resta un mercato chiave da cui non intende in alcun modo ritirarsi. Non abbandonerà l’Italia neppure Barclays, che l’altro ieri ha nominato Jes Staley, banchiere d’affari veterano di Morgan Stanley, quale suo nuovo numero uno.

Staley, che assumerà formalmente la carica solo dal primo dicembre (per il modico compenso di 8,25 milioni di sterline all’anno, oltre ad un pacchetto di azioni Barclays del valore di 1,93 milioni di sterline a compensazione delle stock option a cui dovrà rinunciare uscendo da Morgan Stanley), non ha perso tempo e ha già fatto sapere ai dipendenti della banca britannica che intende “completare la necessaria trasformazione e riposizionamento della banca d’investimento verso un modello a minor assorbimento di capitale”.

Per riuscirvi, secondo gli analisti, potrebbe comunque aver bisogno di un aumento di capitale da circa 5 miliardi di sterline visto che i dati del terzo trimestre dell’anno hanno confermato come i coefficienti patrimoniali dell’istituto restino i più deboli tra le banche britanniche. Anche in questo caso il problema sembra legato alle attività di banca d’investimento, relativamente poco redditizie in rapporto alla quantità di capitali impiegata. Per questo Jes dovrà tagliare e allo stesso tempo provare a cambiare la mentalità di quella che è al momento la banca d’investimento più piccola e debole in Europa.

Insomma: i colossi del credito europeo hanno scoperto a loro spese che cercare di rimpiazzare l’attività bancaria “ordinaria” con la finanza sempre più spinta non è una ricetta che porti automaticamente robusti utili, almeno non senza rischi altrettanto elevati. Ma correre rischi è l’ultima cosa che le banche europee, ancora in ritardo nella loro ristrutturazione rispetto alle controparti americane, possono permettersi nel momento in cui la Federal Reserve si prepara ad alzare i tassi e la Cina continua a mostrare segnali contrastanti circa la salute del proprio modello di crescita e se i colossi scricchiolano, le banche piccole e medie non stanno meglio.

Il problema di fondo, a ben guardare, resta quello di una crescita finora insufficiente e fortemente esposta al rischio di un deficit sempre più grande a causa da un lato del tentativo di far ripartire l’economia, dall’altro dei salvataggi degli stessi colossi bancari e assicurativi europei negli ultimi anni. Nell’uno come nell’altro caso, come detto, occorre ringraziare la capacità di Mario Draghi di inventarsi soluzioni per ravvivare i mercati e diluire nel tempo i costi di una trasformazione che resta tuttavia inevitabile. Tirar calci al barattolo consente infatti di guadagnare tempo, ma non di trovare una soluzione definitiva, che prima o poi andrà affrontata o si materializzerà nel modo più imprevedibile (e probabilmente brutale) da sé.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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