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Vent’anni dalla morte di Federico Fellini: cosa resta del genio che cambiò per sempre la settima arte?

Il 31 ottobre del 1993 si spegneva uno degli artisti italiani che più di ogni altro ha segnato l’immaginario di generazioni, lasciando la sua impronta inconfondibile nella settima arte. Oggi in tutta Italia si celebra il ventennale della morte di Fellini, il genio che di sé diceva: “Sono solo un gran bugiardo”.
A cura di Andrea Esposito
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Dopo una settimana di coma, a mezzogiorno del 31 ottobre 1993 al Policlinico Umberto I di Roma si spegne l’anziano maestro Federico Fellini. All’annuncio della morte l’emozione generale è indescrivibile. Il regista viene vestito con lo smoking indossato pochi mesi prima durante la serata degli Oscar e trasportato nella camera ardente, allestita il 2 novembre nel Teatro 5 di Cinecittà, sotto l’azzurro panorama di “Intervista”. Ai lati della bara due carabinieri in alta uniforme. Non si capisce bene se sono “veri” o degli attori. Un corteo che qualcuno stima in settantamila persone sfila commosso per rendere omaggio alla salma. La cerimonia ufficiale si svolge il giorno seguente nella Basilica di Santa Maria degli Angeli, in piazza Esedra, alla presenza delle più alte cariche dello Stato. A riprendere l’evento, le telecamere di mezzo mondo e non c’è quotidiano che non presenti la notizia come una perdita per l’intera umanità. Sull’onda dell’emozione generale appare su un giornale il seguente titolo: “Per Fellini comincia un grande futuro”.

Tuttavia per molti, troppi, anni così non è stato, almeno in Italia. Chi l’avrebbe mai detto, vent’anni fa, che uno degli artisti più significativi del ‘900, paragonato dall’intelighentia di tutto il mondo ai grandi geni italiani del Rinascimento e del Barocco, finisse nel dimenticatoio della storia? Mentre all’estero risulta l’autore italiano più studiato insieme a Dante, Leonardo e Michelangelo, con un numero incalcolabile di pubblicazioni e convegni. E noi?

Per fortuna da circa un paio d’anni le cose stanno cambiando, anzi, possiamo affermare senza tema di smentita che negli ultimi tempi non si fa che parlare di Fellini. Ormai chiunque venga intervistato in ambito artistico sente il dovere di citarlo, per il ventennale della morte sono state approntate maratone televisive, mostre, celebrazioni civili e messe cantate. Addirittura sono saltati fuori da chissà quali scantinati tutti, ma proprio tutti, i documentari prodotti durante e dopo la lunga carriera di Fellini. Come è ovvio, mettendo insieme quelli buoni insieme con le patacche.

Insomma è febbre Fellini. Ma se andassimo in giro a chiedere agli under 40 quali film hanno visto (e non sentito dire) del Maestro probabilmente torneremo a casa delusi. Fatti salvi la “Dolce vita” e “Amarcord” sono ben poche le opere passate in televisione negli ultimi dieci, quindici anni. Ciò detto, come si giustifica questo ritorno a Fellini? Perché solo pochi anni fa per parlare dell’incredibile attualità della sua opera bisognava bussare alle porte delle riviste più specializzate mentre oggi, vivaddio, possiamo farlo su un giornale generalista e con grandi tirature.

Una risposta forse c’è e chiama in causa direttamente la critica cinematografica che troppo presto ha bollato l’ultimo Fellini (da “Casanova” in poi) come “estremo”, “ormai delirante”, impedendo un dibattito serio, aperto magari a voci un po’ più giovani e fresche, sui temi e sull’eredità poetica di Fellini. Si è realizzata insomma l’oscura profezia, quella che solo una parte degli studiosi di cinema, sacerdoti del culto, ha continuato a portare avanti in alcune accademie italiane e in quel grande serbatoio di intelligenze che era la Fondazione Fellini di Rimini, ormai priva di fondi, e la rivista “Amarcord” chiusa e in attesa di riprendere le pubblicazioni.

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Quella che negli anni ’80 era ritenuta eccessiva complessità, stilismo deteriore, arte paranoide è, a uno sguardo contemporaneo, il messaggio in codice del Maestro su ciò che avremmo vissuto col passare del secolo: la scomparsa della realtà, il mutare delle città e della società, la finzione che si fa verità, l’ossessione voyerista… tutti temi che oggi mettiamo sotto l’ombrello della postmodernità, del mondo globale, della rivoluzione digitale e che trent’anni fa non erano così interessanti per molta parte della critica. Per fortuna oggi, dopo i grandi maestri americani (da Scorsese a Tim Burton) anche i registi nostrani sembrano riprendere l’eredità di Fellini. L’esempio lampante è Sorrentino e in particolare il suo ultimo film, “La grande bellezza”, che molti hanno celebrato come una nuova “Dolce vita”, richiamo fin troppo scontato che ancora una volta conferma il ritardo nell'elaborazione della grande eredità lasciataci dal Maestro riminese. Se provassimo invece a pensarlo come un prosieguo ideale sul piano poetico e stilistico di “Roma”, di “Casanova”, di “Ginger e Fred” più che della “Dolce vita” forse capiremmo qualcosa di più su Sorrentino, su Fellini, sull’Italia, su noi stessi.

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