Vasco Brondi: “Non mi interessano numeri enormi, devo sentirmi bene con le mie canzoni”
Vasco Brondi torna con un album di pop impopolare, come dice lui stesso, cercando di rilanciare una sorta di etichetta ironica. Un segno di vita è il secondo album di inediti che l'ex Le luci della centrale elettrica, firma col suo nome e ripercorre una strada che cerca di aprirsi a un'idea più canonica di pop – sfumatura che, va detto, non gli è mai mancata, soprattutto negli ultimi album – ma che evidentemente questa volta diventa quasi un traguardo. Eppure quello che Brondi riesce a fare è quello di creare melodie e armonie che riescono a essere fruibili universalmente, facendo un lavoro enorme sui testi, una delle sue caratteristiche, un lavoro di cesello per far sì che la parola scorra sempre, che il significato e il significante, siano fruibili ma non difficili.
Definisci la tua musica "pop impopolare" e il libretto che accompagna l'album lo definisci proprio un manuale di questa cosa.
Il libro che accompagna il disco è stato una guida nel lavorare al disco, dentro c'è tutto quello che dalle canzoni è esondato e di cui, spesso, è rimasta traccia solo lì: canzoni che si sono disperse durante il tragitto o viaggi che ho fatto e di cui non c'è traccia nella canzone, se non in modo subliminale. Le canzoni possono essere molto trasparenti, credo molto in questa cosa, nel fatto che riusciamo a captare delle cose nelle canzoni anche se non sono dette esplicitamente, c'è un'aria dentro, c'è qualcosa che ci racconta di più. Poi ho voluto giocare anche con il titolo del libro, che si chiama Piccolo manuale di pop impopolare perché mi sembra un po' il mio genere.
Spiegaci meglio.
In questo disco in particolare ho voluto provare a fare una cosa che per quanto riguarda me e quello che ho fatto in questi quindici anni è sperimentale, ovvero lavorare più col pop, con la forma canzone più strettamente definita: tutte le canzoni, a parte una, hanno una forma canzone classica, così come ci sono solo due ballate, tutte le altre canzoni sono più movimentate. Il lavoro sui testi, poi, è stato di togliere, togliere uno strato e arrivare più all'essenziale, andare nel profondo e così ho fatto anche con ogni singola canzone. In passato mettevo le parole anche un po' col martello, mentre questa volta sono stato più attento a una certa musicalità, per quanto nelle mie cose mi piace che ci sia sempre qualcosa che sgomita un po': ci sono atmosfere, armonie, anche dolci, ma sempre con atmosfere distorte attorno, ci sono elementi che ritornano e che caratterizzano musicalmente anche un po' la mia identità. Mi accorgo sempre di più di quello che diceva De Andrè, ovvero che per lui la musica continuava a essere un tram che porta in giro le parole, scherzando nello sminuire questa cosa, però il tram è fondamentale, se no quelle parole rimangono lì, ferme, invece per raggiungere gli altri è indispensabile.
Incendio è la canzone da cui parte il progetto, ha in sé il fuoco, elemento che inserisci varie volte, però mi paiono anche canzoni in cui alzi la testa al cielo, come fai spesso, in cui il campo semantico è quello…
Per me è interessante sentire cosa gli altri pensano delle mie canzoni, perché in questo modo capisco qualcosa in più anche io delle canzoni. Mentre le faccio, infatti, non ne ho totale consapevolezza, anzi la cosa che mi interessa delle canzoni è proprio quando mi rende consce delle cose che avevo inconsce, anche delle cose che mi interessano, cose di me profonde, sono veramente uno strano mezzo di trasporto.
E in un mondo di gente che non sa scrive, ci sono sempre chicche come le rime (anche interne) allitterazioni in versi come “di scene pericolose, di strade tortuose dirette a mete meravigliose, montagne scoscese, spiagge minuscole erose” che ti fa scivolare proprio verso quelle spiagge.
Sicuramente c'è stato questo lavoro sulle parole, che ho trattato come se fossero strumenti musicali, per esempio sulla metrica che già da sola crea una musica: le parole possono essere ritmiche, melodiche, quindi ho fatto un lavoro in più sulla metrica, sull'uso della rima e sono contento se passa così, come se fosse semplice farlo, ma non lo è. De Andrè era un maestro in questo, lui ne parla anche molto, parla della difficoltà del voler dire una cosa ma mantenendola con la metrica e la rima giusta, oppure c'è Dalla che diceva "Se fa rima è già una verità" e questo ha qualcosa di vero nelle canzoni. Dalla diceva: non preoccuparti troppo della logica in senso razionale, stretto, perché se c'è la rima vorrà dire qualcosa in più, e quella frase starà assieme. Mi piace molto studiarmi queste cose, ci sono artisti, cantautori che hanno una consapevolezza enorme di quello che fanno anche se, uno come Dalla riusciva a farla passare pure in modo giocoso, mentre dietro c'è un lavoro spaventoso.
E sullo sguardo al cielo che mi dici?
Sono contento che mi fai notare questa cosa dello sguardo al cielo, dell'orizzonte ampio: io mi rendo conto che tutto quello che ho fatto, dall'inizio, è andato nella direzione di allargare l'orizzonte. Cioè, sono partito da un disco che parlava di quattro amici in due chilometri quadrati di una città e l'orizzonte si è aperto sempre di più e questa cosa fa parte anche della mia ricerca artistica ma anche personale. Da una parte esiste una ricerca musicale che forse anche negli ambienti più alternativi è semplicemente andata verso la ricerca dell'espansione, dell'aumento dei numeri, dell'aumento delle capienze dei posti dove si suona, dell'aumento dei follower e degli streaming. Cioè, anche negli ambienti che erano una volta alternativi, la ricerca si è spostata su quello, sulla ricerca di ampliare il pubblico, di trovare l'idea di marketing migliore – tra l'altro anche spesso con delle idee migliori degli artisti rispetto a quelli degli uffici marketing -, però a me interessa ancora quella ricerca verticale, che ci porta dal nucleo incandescente della Terra e di noi stessi a guardare verso l'alto. E credo che questa apertura che c'è nelle canzoni arrivi un po' da questo.
Canti "Meno case e più templi, più dei che abitanti" che sembra sia la tua visione di vita: quanto il tuo meditare e lavorare su di te ti ha cambiato il tuo approccio, in questi anni?
Per me adesso è tutto talmente fuso – anche la scrittura e la musica rispetto alle pratiche contemplative -, che faccio fatica a capire dove inizia una cosa e dove finisce l'altra. David Lynch, che è un grande mediatore – lui fa meditazione trascendentale, io faccio meditazione Vipassana – ha scritto un libro che è stato tradotto in italiano come Acque profonde, perché il pesce grosso lo peschi in acque profonde, e sicuramente queste pratiche ti portano in acque più profonde, ti portano a contatto con delle cose che sono un po' al di là del materialismo, un po' al di là dell'attualità. Credo che questa cosa aiuti a mettere nelle canzoni, non solo i nostri tempi, le quattro cazzate che facciamo tutti i giorni, ma anche quella scintilla di eternità. Ed è una cosa che io ancora non riesco bene a spiegare perché è proprio al di là della razionalità, è qualcos'altro. Lì c'è qualcosa che per ora è difficile da spiegare, in cui, però, ho trovato la verità: adesso, se non medito, se non faccio queste cose qua, mi sembra di non vivere quella giornata. Cioè poi faccio mille cose interessanti, ma quello lì è il momento più importante.
Il movimento verso questo nuovo pop nasce prima dell'album o ti rendi conto che era quella la strada mentre lo scrivevi, confrontandoti, casomai anche con Cantaluppi?
Guarda, mi sa che me ne sono reso conto facendolo. Matteo Cantaluppi è stata una delle prime persone che ho conosciuto a Milano, nel 2007, siamo diventati amici ma non avevamo mai collaborato prima di adesso, anche se erano anni che ce lo dicevamo, così come con Nardelli, insomma, ho continuato anche questa cosa di avere a che fare con produttori che lavorano anche nel pop ma che avessero un background come il mio e una storia come la mia: gli stessi ascolti, che sappiano suonare tutto, la batteria, il basso, conoscano la musica, il pianoforte, che fossero dei super musicisti perché questa cosa mi fa sentire più a casa. Sento che sono produttori che hanno lavorato anche su cose lontane da me – altre invece no – dove però sapevo che mi sarei potuto trovare bene proprio perché mi trovo bene umanamente e infatti così è stato. In questo disco, però, avendoci lavorato tre anni, prima ho provato delle soluzioni e poi piano piano ho cominciato a dire: "Proviamo a vedere cosa succede usando un altro ambiente". Con Matteo, per esempio, ho lavorato su "Incendi" e su "Notti luminose", e su Incendi aveva fatto una prima versione che probabilmente avrebbe funzionato molto di più in radio, però non la sentivo mia e così l'abbiamo proprio rifatta da capo. Quindi è anche una persona che ti dice: "Va benissimo, rifacciamo in un altro modo".
E come l'avete modificata?
L'abbiamo rallentata. Questi produttori, se sono molto bravi, si avvicinano a te, insomma ho disinnescato ogni possibilità di hit, probabilmente anche con Cantaluppi.
A un certo punto canti: "Bombardano, bombardano e tutti guardano, non arrivano le provviste, non arrivano le voci e le promesse". Un pensiero attuale sempre, purtroppo.
In effetti quando scrivi canzoni esiste questa cosa qua, che ci puoi mettere dentro delle cose che sono estremamente attuali, ma hanno dentro una scintilla di umano e di conseguenza che può avere 350.000 anni perché è vero che non c'erano le bombe, però esistevano già quelle dinamiche lì. Questa canzone l'ho scritta che era scoppiato il conflitto in Ucraina, poi è scoppiato anche quello tra Israele e Palestina e quindi rimane attuale anche ora: per me è importante che nelle canzoni, anche quando sono canzoni d'amore, ci sia sempre il contesto in cui sono ambientate, la situazione culturale e sociale oltre ai conflitti che ci sono dentro e in questa canzone più che mai mi risuona per questo sono molto contento che ci sia lì dentro.