“Il nostro pubblico non capisce mai cosa sta avvenendo sulla scena, però ride e alla fine reagisce esattamente come se avesse capito”, così esordisce Antonio Rezza per raccontare il suo ultimo lavoro, “Fratto_X”, come sempre nato dalla collaborazione con Flavia Mastrella e che negli ultimi mesi sta girando i teatri italiani. Probabilmente basterebbero queste parole per spiegare il senso del sodalizio Rezza&Mastrella che da oltre vent’anni realizza “performance teatrali, film a corto e lungo respiro, trasmissioni televisive, performance e set migratori”.
La chiave fondamentale per comprendere questa coppia cult delle arti sceniche italiane sta proprio qui: tenere alla larga ogni definizione che intenda restringerli nell’angusto campo teatrale. A cui tuttavia tornano dagli inizi degli anni ’90, come in una formula matematica, regolarmente ogni tre anni. Con “Fratto_X” hanno aggiunto un nuovo tassello a quel percorso che Flavia Mastrella definisce “Una nascita. A un certo punto, qualche tempo dopo l’ultima tappa di un tour, il corpo di Antonio invade lo spazio come se venisse di nuovo al mondo. Questo gesto rappresenta i nostri corpi per quello che sono diventati nel frattempo. Il nostro corpo cambia quotidianamente e non c’è nessun filtro con le azioni sulla scena. Cioè, nell’habitat che gli costruiamo attorno.”
M.V. Quanto di volontario c’è nel vostro teatro che voi stessi definite “involontario”?
A. R. In realtà noi abbiamo sempre operato con questo metodo, anche se agli inizi in maniera del tutto inconsapevole. Flavia ha ragione (ride): è come una nascita. All’inizio di un nostro lavoro c’è sempre uno spazio che il corpo occupa. Non ci interessa il teatro degli artigiani, gerarchicamente organizzato, dove ognuno ha il suo ruolo. Noi siamo per l’anarchia e l’anarchia è – prima di tutto – anarchia relazionale, cioè un metodo che porta a fidarsi l’uno dell’altro senza controllo.
F.M. E poi anche un metodo privo di prevaricazioni! Gli spettacoli che portiamo in scena sono di tutti e due, li firmiamo assieme perché ciò che viene fuori appartiene a entrambi, senza distinzioni.
M.V. Come si arriva dall’anarchia alla realizzazione di uno spettacolo?
A.R. In genere lavoriamo da soli, ognuno seguendo il suo percorso. Dopodiché ci incontriamo e montiamo le nostre creazioni come in un film. Quindi, esattamente come nel cinema, i pezzi arrivano già pronti al montaggio. Il nostro lavoro insieme consiste soprattutto in questo: spostare a seconda delle necessità i pezzi, come quando si costruisce una macchina. Magari all’inizio la turbina sta in un punto, ma dopo un po’ ci rendiamo conto che per funzionare deve stare da un’altra parte…
F. M. Per me ogni volta iniziare un lavoro con Antonio è un incubo. In genere parto da un concetto e sviluppo delle idee. Invece stavolta non avevo nemmeno un concetto preciso da cui partire. Allora, circa un paio di anni fa, ho cominciato a scattare delle foto alle luci autostradali da un furgone ad altissima velocità. Per quasi due anni ho condizionato la mia fantasia ripetendo quest’esercizio dinamico e guardando tutti i film di Kurosawa. Quando ho capito di essere pronta ho disegnato due strisce identiche alle immagini della luce in movimento e le ho realizzate con una stoffa molto sottile che suggerisse l’idea del fascioline luminoso. Poi sono arrivate le luci di Mattia (Mattia Vigo, che ha disegnato le luci di “Fratto_ X”) e il tutto mi è sembrato di una bellezza suprema.
M.V. A proposito di performance teatrali/macchine. Nella parte iniziale di “Fratto_X” la scena resta vuota per circa cinque minuti. Cinque minuti di assenza che, paradossalmente, hanno la forza di conquistare lo spettatore.
A.R. In effetti ci vuole un po’ di incoscienza ad assentarsi così! Non molto coraggio, ma incoscienza. In genere, all’inizio di uno spettacolo il pubblico deve essere conquistato con la presenza. Invece stavolta siamo riusciti a realizzare esattamente l’opposto. Se in cinque minuti di vuoto riesci a entrare in sintonia con il pubblico, ti ritroverai tra le mani un propellente che può portarti fino alla fine dello spettacolo.
M.V. Dettaglio non trascurabile, creando comicità…
A.R. Inspiegabile, a mio avviso. Perché io non sento nulla. Sono isolato dal pubblico da una serie di porte. Mi hanno detto che in sala ridono e ciò secondo me significa una sola cosa: il pubblico ci ringrazia perché non ci siamo!
M.V. Una riflessione sul film che mercoledì presenterete al Teatro Valle di Roma, “Troppolitani. Valle Occupato”.
A.R. Il nostro è stato un lavoro sulle contraddizioni dell’esperienza di occupazione al Valle. La premessa di partenza è stata: qualsiasi essere umano, nel momento in cui occupa uno spazio, non diventa né migliore né peggiore di quello che era quando l’ha fatto. A noi non interessava un film analitico sull’occupazione del teatro e sulla sua storia. E immagino che anche quelli del Valle, chiedendo a noi un film su di loro, non volessero un film del genere. Per noi è un lavoro che racconta l’occupazione e la contraddizione di quegli attori che da un lato lavorano in campo cinematografico e televisivo, magari scritturati in qualche fiction – cioè quelle che io definisco moderne opere di sterminio di massa – mentre dall’altro si impegnavano in un’operazione importante come l’occupazione di uno spazio. Il nostro film cerca di spiegare, naturalmente senza spiegarlo, come possano convivere queste due schizofrenie in un corpo solo.
M.V. E per Flavia?
F.M. Per me è un film che parla soprattutto di arte. Le contraddizioni di chi occupa il Valle riguardano solo ciò che sta nel teatro. Ma fuori di lì parla di arte, soprattutto in quei luoghi dove l’arte non c’è. A cinquanta metri dal teatro vivono persone che non sanno nulla del Valle, non sanno che a pochissima distanza c’è un teatro. Per cui il nostro film va soprattutto in questa direzione: mettere in luce la lontananza dell’arte dalle persone normali. Il che mi lascia pensare che oggi ci troviamo in un momento in cui bisogna parlare di fallimento dell’arte. Perché gli artisti oggi hanno perso tante cose, ma soprattutto hanno perso il contatto con la gente.
M.V. È così? Oggi ci troviamo davanti al fallimento dell’arte più di quanto ci trovassimo ieri?
A.R. il punto è che oggi molti artisti cercano il fallimento. Lo fanno programmaticamente. Chi non riesce ad entrare in contatto con la gente giustifica il proprio fallimento con l’incapacità di chi ascolta. Facciamo un esempio: molte delle compagnie teatrali che non hanno pubblico scelgono di diventare sempre più criptiche proprio per giustificare quest’assenza di pubblico che, in realtà, non sono stati capaci di trovare. Tutti coloro che scelgono di rappresentare i propri spettacoli negli scantinati, permettendo la visione soltanto a dieci spettatori, cercano di ghettizzare il pubblico spacciandola per un’azione di ricerca. Quando il vero problema che dovrebbero porsi è che la loro opera, semplicemente, non arriva alle persone.
M.V. Questo fa esattamente il paio con la battuta con cui abbiamo cominciato quest’intervista…
F.M. Già. Per essere buona un’opera non deve per forza essere capita, però deve passare. Perché nel momento in cui passa dal palcoscenico alla platea le persone si legano tra loro. Ai nostri spettacoli le persone si divertono, da lì viene fuori un senso di coesione che nasce dall’esperienza (di massa) della risata.
M.V. Come vi spiegate il vostro successo?
A.R. La nostra spiegazione è che facendo musica e non teatro, arte e non teatro, il messaggio arriva o non arriva. È questo il grande equivoco, perché il teatro si rifugia nella ricerca della comprensione. La musica no, arriva al cuore della gente o non ci arriva. Muove delle altre corde, come succede a un quadro o a una scultura. Un dipinto di Picasso non si capisce ma suscita delle emozioni. E perché mai dovremmo capire le emozioni? È esattamente per questo che continueremo a definirci due che non fanno teatro, se non in maniera involontaria. Il nostro lavoro segue un’altra via. Vogliamo che il pubblico ci senta, non che ci capisca.