Come hanno fatto notare fin da subito alcuni attenti analisti, la notizia dell'assegnazione del Premio Nobel 2011 allo svedese Tomas Transtromer è stata accolta con una certa sorpresa dai "salotti buoni" della comunità letteraria internazionale e ha destato non poche perplessità. Non tanto per la scelta di premiare con tale riconoscimento il poeta dei silenzi nordici, colui che "attraverso le sue immagini dense e nitide, ha dato nuovo accesso alla realtà", come si legge nella motivazione ufficiale dell'Accademia svedese. Del resto sono in pochi a discutere sul valore assoluto dell'opera di Transtromer, seppur estremamente legata alla tradizione "nordica prima e scandinava poi", poco nota al di là delle colonne d'Ercole e quasi completamente sconosciuta al grande pubblico. Sfumature, per i rigidi membri dell'Accademia di Svezia che hanno optato tutto sommato per una scelta "tradizionale e convenzionale".
In realtà però, come dicevamo in apertura, la causa scatenante polemiche e perplessità ha radici diverse, che trascendono ogni valutazione sull'ottantenne psicologo svedese e affondano nell'irrisolto conflitto fra scuole letterarie e tradizioni culturali solo superficialmente permeabili e "complessivamente valutabili secondo una logica universale e non legata a campanilismi o contingenze di altro tipo". Inutile girarci intorno: sono anni che tarda ad arrivare un riconoscimento per uno dei grandi della letteratura statunitense. E sinceramente, al di là delle preferenze personali e, appunto, delle contingenze (solo qualche giorno fa Chris Benfey, noto critico letterario, sottolineava quanto "l'eredità politica di Bush avesse un peso sulle decisioni" dell'Accademia), i tempi per la "fine dell'attesa" sono più che maturi.
Inutile girarci intorno: sono anni che tarda ad arrivare un riconoscimento per uno dei grandi della letteratura statunitense. E sinceramente, al di là delle preferenze personali e, appunto, delle contingenze (solo qualche giorno fa Chris Benfey, noto critico letterario, sottolineava quanto "l'eredità politica di Bush avesse un peso sulle decisioni" dell'Accademia), i tempi per la "fine dell'attesa" sono più che maturi. Dal geniale e prolifico Philip Roth, scrittore cosmopolita e anticonformista ante – litteram, la cui produzione meriterebbe senza alcun dubbio una consacrazione definitiva (quando si dice che il successo di pubblico non è sufficiente…), passando per il 75enne Don DeLillo, pure considerato fra i papabili quest'anno, tornato lo scorso anno prepotentemente sulla scena con lo spiazzante Punto Omega e certamente scrittore in grado descrivere la complessità del reale, della politica, dei media con una nitidezza ed un acume unici e immediatamente "riconoscibili". Per non parlare nemmeno della genialità assoluta di un poeta come Bob Dylan, i cui versi resteranno scolpiti nella coscienza collettiva "a prescindere" da ogni riconoscimento.
Il tutto senza nulla togliere all'ottavo Nobel svedese per la letteratura, anche perchè del resto, non sembri un'eresia, possiamo confessare di non aver letto poi molto, dal momento che in Italia le sue opere non hanno trovato "editori e traduttori di buona volontà e ferrea decisione", eccezion fatta per il "solito" Nicola Crocetti e per l'ottimo lavoro della giuria del Nonino.