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Tim Burton torna nelle sale: Frankenweenie

Arriva nelle sale Frankenweenie, il nuovo lungometraggio in stop-motion di Tim Burton, un collage di tecniche cinematografiche e storia del cinema.
A cura di Simone Petrella
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Tim Burton, Allison Abbate

È uscito da pochi giorni nelle sale italiane il nuovo film di Tim Burton, Frankenweenie. Il regista ritorna con questo lungometraggio a una tecnica di animazione tra le più vecchie che esistano: la stop-motion.

Tim Burton ha già adottato più volte questa forma di animazione in passato, da Nightmare before Christmas a La sposa cadavere. «Si tratta della possibilità di poter creare qualcosa dal nulla. Si tratta sostanzialmente di un pupazzo inanimato al quale vien data la vita». È curioso come questa definizione data dal regista possa valere anche da descrizione del film: il tentativo di dar vita a un essere inanimato, Sparky, il cane morto del protagonista, attraverso l'applicazione della scienza.

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Per Tim Burton la stop-motion, più che essere mera tecnica, ha un valore artistico che si collega perfettamente al suo gusto narrativo. Non a caso il regista aveva già in passato dimostrato la sua ostinata passione per questa modalità di animazione, l’unica che si basa sulla materia reale, plasmabile.

La stop-motion prevede una serie di scatti fotografici di pupazzi che poi, messi in sequenza, danno l’impressione del movimento. Sembra una tecnica semplice e negli anni l’abbiamo vista applicata in forme assolutamente varie – dal cartone Pingu ai lavori artistici di Jan Svankmajer – ma sul set di Tim Burton ha significato 2 anni di riprese, l’utilizzo di più di 18 animatori, 200 pupazzi con anima in ferro, vestiti fatti su misura, parrucche ricavate da ciocche di capelli incollate sulla testa dei personaggi fino a che non sono sembrate verosimili, un ospedale per i manichini, 150 artigiani pronti alle riparazioni del caso e un girato più o meno di 5 secondi a settimana per animatore.

Le dimensioni dei pupazzi sono estremamente ridotte, ma non tanto da impedire la realizzazione dei movimenti precisi e verosimili che il regista desiderava; il primo manichino a essere realizzato è stato Sparky, grandezza: 10 centimetri!

Dunque Frankenweenie non può certo essere considerato un’opera anacronistica, tuttalpiù è un piccolo Frankenstein delle tecniche cinematografiche. La stop-motion è stata affiancata, infatti, dall’utilizzo del bianco e nero (come già nel corto omonimo del 1984), dalla creazione di oltre 1500 effetti visivi della più nuova tecnologia digitale – ma sempre applicati sul lavoro in stop-motion, nessuna sequenza è stata disegnata – e dall’utilizzo del 3D, che forse non aggiunge troppo all'opera.

Un collage di tecniche miste di epoche differenti, dalle più vecchie alle più nuove del panorama cinematografico mondiale: ancora una volta l’applicazione tecnica trova un parallelonella la sceneggiatura, che è una citazione continua delle passioni cinematografiche del regista, da Frankenstein a Godzilla. I bambini compagni di Victor, il protagonista, sono poi un mix di citazioni horror, basti pensare ad Edgar, che rimanda per il nome a Edgar Allan Poe e per le sembianze a esseri come Igor e Quasimodo.

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Anche l'autocitazione assume in questo film un grande rilievo, anzi un ruolo determinante: il personaggio dello scienziato Rzykruski è un evidente tributo a Vincent Price, attore amato da Tim Burton e al quale è dedicato il suo primo cortometraggio, Vincent. Questa scelta, che unisce la prima e l'ultima opera del regista, ci invita a leggere il film in chiave di metafora: non è certo un caso se proprio la parole di Rzykruski inducono il protagonista ad iniziare gli esperimenti che riporteranno poi in vita Sparky; gli stessi esperimenti che, se mal realizzati dagli altri bambini, generano invece creature mostruose, deformi. Victor, poi, è un vero e proprio alter ego dell'autore; il regista ha infatti accompagnato il film in sala rivelando «Anch’io da bambino avevo sempre la testa fra le nuvole, ero un solitario. E avevo un rapporto speciale con il mio cane».

Si ha l'impressione che Tim Burton, conservando così a lungo dentro di sè l'idea del film, l'ha nutrita della propria esperienza e l'ha lentamente arricchita di continui riferimenti metacinematografici, fino a trasformala in una sorta di parabola del suo modo di intendere il cinema e del suo modo di farlo.

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